Anni Quaranta, Guardini parla embrionalmente di oggi
Bisognerebbe accendere candele alla memoria di certe parole e fatti storici.
La prima al simposio “L’uomo e il suo futuro”.
Boston, 1963, la biologia molecolare solo agli inizi, il casellario delle sue imprese ancora vuoto. C’erano tutti i più grandi genetisti d’America e fu ipotizzato, nel plauso generale, il “lasciar esaurire le stirpi di genitori geneticamente imperfetti”.
Un cero anche al documentario che il Nobel James Watson realizzò per la storia del Dna: “Dovremmo permettere a Hitler di nuocerci per i prossimi 200 anni? Se sei stupido la chiamo malattia”. E al suo compagno a Oslo, Francis Crick, che nel 1978 disse che “nessun bambino dovrebbe essere definito come essere umano prima di essere stato sottoposto a un test che ne determini il corredo genetico. Se non supera il test, si è giocato il diritto alla vita”.
Profetico Romano Guardini, il teologo tedesco che nel 1949 disse che avremmo presto considerato l’uomo come “un’escrescenza qualsiasi la cui estrazione può solo giovare”.
Ha diradato con le dita le ombre del suo tempo. Nel 1949 pubblicò un breve intervento sul “Diritto alla vita prima della nascita”, appena uscito in libreria per Morcelliana. Dovevano ancora passare quattro anni prima che quella bocca salata di Watson fornisse la planimetria del Dna. Ma Guardini vide in faccia il fiele della genetica uscita come nuova dal gorgo della Seconda guerra mondiale. E fece la sua diagnosi:
“L’uomo è diventato rispetto agli altri uomini incline a trattare i suoi simili come ‘cose’ che cadono sotto la categoria dell’utilità”. Insieme all’irripetibilità, che sarebbe diventata quasi cosa morta, per Guardini nella vita di massa dell’esistenza moderna si sarebbe smarrito “il senso della fondamentale intangibilità della vita umana”.
Una sorta di assuefazione e di asfissia culturale, che Bertrand Russell definì come “un grande caldo che infiamma così impercettibilmente che non sai quando gridare”.
L’obiezione relativista recitava già allora un copione noto:
“Si potrebbe ribattere che esiste un’evoluzione anche nelle cose del costume dell’umanità, e che perciò non si dovrebbero porre principi assoluti”.
Ma Guardini disse che bisognava sempre spiegare che “la vita in maturazione è un uomo. Questa asserzione si fonda sulla dignità della persona umana”.
L’uomo è inviolabile non perché vive e quindi ha un diritto alla vita. Questo diritto ce l’ha anche l’animale. Per Guardini sarebbe arrivato il giorno in cui un animale in libertà sarebbe stato più tutelato di “un uomo malato o schiacciato dal destino”. La vita dell’uomo non può essere violata perché l’uomo è persona.
“L’uomo civile si distingue appunto dal barbaro perché la rispetta anche in un simile involucro. Può essere anche latente come nell’embrione, ma già vi è col proprio diritto”.
La scienza non può nemmeno essere chiamata a stabilire quando inizia la vita, la tratterebbe come una soluzione salina, “la si possiede, la si usa, e per finire la si distrugge, vale a dire, per gli esseri viventi, lo si uccide”.
La proibizione di uccidere la vita rappresenta il coronamento della proibizione di trattarla come cosa. Per Guardini è impossibile farsi un’idea di quali minacce possano sorgere per la vita dell’uomo se, privo del baluardo di questo rispetto, viene consegnato allo Stato moderno e alla sua tecnica. E se un figlio viene considerato come semplicemente “del corpo della madre”, come un organo o una sua escrescenza, invece che un uomo in divenire.
“In questa realtà di fatto si esprime l’essenza più intima della maternità e, in quanto a essa collegata, anche l’essenza della femminilità in generale. Esser madre non significa ‘produrre vita’, anche gli animali fanno questo, ma ‘dare la vita a un uomo’”.
La brutalità dei sani
Guardini vide riversarsi sulla maternità “un diluvio di sentimentalismi”. A chi gli obiettò che fino al centesimo giorno, oggi siamo scesi al quattordicesimo, l’embrione non è ancora un vero e proprio essere autonomo, rispose che questa considerazione si fonda su “una concezione meccanicistica dell’essere vivente”.
I cui strascichi deleteri culminano in una visione dell’essere-uomo non come un carattere essenziale, ma “qualcosa che è dato in grado superiore o inferiore, in quella misura in cui lo stadio di sviluppo preso in considerazione si avvicina all’optimum”.
E’ come una graduatoria, la distanza dal punto ottimale va proiettata all’indietro, verso il principio: “Quanto più lo stadio dell’evoluzione embrionale è primitivo, tanto meno umano è il prodotto; si può però proiettarla anche in avanti, per concludere: quanto più lo stadio dell’evoluzione autonoma dista dal culmine già raggiunto, ossia quanto più l’individuo è vecchio, tanto meno è ancora uomo”.
E’ l’eutanasia che beve a questa fonte intellettuale. Insieme a Peter Singer, che non a caso parla di “indicatori dell’umanità” (autocoscienza, senso del tempo, capacità relazionale, ci dispiace Terri Schiavo).
E infine, ricorda Guardini, “quanto più un individuo è malato, debole, sventurato, tanto meno può pretendere al carattere di vero essere umano”.
La curva della vita inizia con l’unione delle cellule dei genitori, culmina nella perfezione morfologica e giunge alla morte.
“E’ già essere umano fin dal concepimento – come lo è ancora all’ultimo momento del morire. Non è logicamente possibile pensare altrimenti”.
Nascita e morte, ascesa e decadenza, infanzia e maturità, salute e malattia appartengono per Guardini a quel tutto che chiamiamo uomo.
“Sono elementi della totalità della sua esistenza, che non è infatti soltanto natura, ma anche storia; che non possiede soltanto uno sviluppo, ma anche un destino; in cui si compiono non solo incremento e danneggiamento, ma anche conservazione e deperimento, vittoria e sconfitta, superamento ed espiazione. E la malattia sopportata con coraggio, l’incapacità di rendimento dalla quale fioriscano bontà, saggezza, maturità, sono assai più ‘valori vitali’ di una salute che renda brutali e di una perizia tecnica che estrometta l’esistenza”.
Il medico per Guardini rappresenta “il diritto dell’uomo malato di fronte alla brutalità dei sani”.
Se la natura condanna, compito della medicina non è quello di eseguire la sentenza, ma di commutare la pena.
Giulio Meotti su il Foglio
saluti