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Discussione: Repubblicanesimo

  1. #11
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    Predefinito

    ***************************************
    UNA REPUBBLICA
    CHE SUPERI I PARTITI

    ***************************************
    di Alcide de Gasperi

    E' noto che il Mazzini alla vigilia del rivolgimento politi-
    co, di cui celebriamo il centenario, tendeva anche ad una
    riforma religiosa e nella sua ricostruzione ideale associava
    l'opera della Costituente a quella di un Concilio che abbattes-
    se il Papato Romano: mirava cioè ad una riforma totale che
    unificasse nella sua Repubblica i due poteri, quello temporale
    e quello spirituale.
    La storia in verità prese diverso cammino e la Repubblica I-
    taliana, proclamata cento anni dopo, si fonda sulla libertà e di-
    stinzione dei due poteri. Ma bisogna anche rilevare che il Maz-
    zini stesso, entrato in Roma dopo che l' Assemblea Costituente
    aveva già fissato nello Statuto fondamentale la formula del Fi-
    lopanti: "il Pontefice Romano avrà tutte le guarantigie necessa-
    rie perla indipendenza nell'esercizio della sua podestà spiri-
    tualel” , nulla fece per opporsi a tale formula o per svuotarla.
    Anzi nel suo discorso all' Assemblea del 9 marzo, evitò tutto
    ciò che poteva dividere e cercò appassionatamente tutto ciò
    che potesse unire, dando alla Repubblica un senso che supe-
    rasse i partiti passati e presenti e quanto era formale nel regi-
    me. “Per Repubblica -egli disse -noi intendiamo un principio,
    intendiamo un grado di educazione conquistato dal Popolo,
    un programma di educazione da svolgersi, un'istituzione atta
    a produrre un miglioramento morale... il sistema che deve svi-
    luppare la libertà, l'uglianza,l'associazione”.
    Ed ecco la conclusione di quel discorso: I”Tollerantissimi di
    quanto ha preceduto l'impianto della nostra Repubblica, di
    tutto ciò che può avere appartenuto a un ordine meno inoltra-
    to di idee, uniamoci tutti nell'avvenire, proviamo, al mondo e
    all'Italia che noi possiamo farci in brevissimo tempo migliori".
    Mi pare questo un appello che, lungo la curva di un secolo,
    arriva anche alle nostre menti e ci spinge al lavoro concorde
    per lo sviluppo politico, morale e sociale della nostra democra-
    zia, costituita a Repubblica.
    ****************************************

  2. #12
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    Predefinito REPUBBLICANESIMO in OLANDA

    ***************************************
    Machiavelli nel pensiero politico olandese del XVII secolo
    ****************************************
    La ricezione del pensiero politico di Machiavelli ha seguito, nelle diverse epoche storiche e nei diversi contesti geografici, percorsi diversi; si può così parlare di un filone di lettura francese e di uno inglese, il primo mirante a rintracciare in Machiavelli il grande teorico della ragion di Stato, e quindi di una concezione laica, se non irreligiosa, della politica; il secondo, invece, pronto a raccoglierne il fervente repubblicanesimo e a trasportarlo nella riflessione politica che dà l'avvio alla tradizione repubblicana anglosassone. Meno studiata è invece la presenza di Machiavelli nella tradizione teorico-politica olandese tardo-cinquecentesca e seicentesca; presenza il cui studio potrebbe consentire di gettare una nuova luce sull'anomalia istituzionale che la Repubblica delle Province Unite dei Paesi Bassi rappresenta nell'Europa del XVII secolo; e, magari, di trovare nuovi punti di raccordo tra il repubblicanesimo rinascimentale e la concezione moderna dello Stato.
    Il percorso ricostruttivo deve iniziare da Justus Lipsius, il primo autore in terra olandese a riconoscere apertamente il valore dell'analisi politica machiavelliana, proseguendo attraverso i numerosi pamphlet che esaltano il principio repubblicano dell'autogoverno, cui si contrappongono gli scritti antimachiavellici del calvinismo accademico; per giungere infine, nella seconda metà del '600, a quel piccolo nucleo di scrittori repubblicani (primo tra tutti Spinoza) nei quali il riferimento anche esplicito all'opera del segretario fiorentino gioca un ruolo di forte accentuazione della declinazione della libertà del cittadino come esigenza di partecipazione al processo decisionale; un'esigenza che però non si colloca all'interno di un quadro concettuale premoderno, secondo il quale l'individuo troverebbe la sua dimensione politica nell'appartenenza ad organizzazioni che mediano il suo rapporto con il potere centrale, bensì è compiutamente dentro l'orizzonte di una sovranità assoluta ed illlimitata, e tuttavia mai pienamente e definitivamente incorporata in una costituzione formale.
    Una simile indagine potrebbe così offrire la possibilità di rinnovare l'attenzione per un tema quale la permanenza della tradizione repubblicana rinascimentale ancora dentro i confini della genesi della Stato moderno, ma in un orizzonte non assimilabile a quello del ben noto 'momento atlantico' machiavelliano.

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  3. #13
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    Predefinito ....di Tommaso Campanella......1637

    Traduzione italiana della quarta delle Quaestiones, pubblicate a Parigi nel 1637. In questo trattatello Campanella difende la comunità dei beni e delle donne.
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    QUESTIONI SULL'OTTIMA REPUBBLICA

    ARTICOLO PRIMO

    Se a ragione e utilmente si sia aggiunta alla dottrina politica il dialogo della Città del Sole.

    Più difficoltà militano contro la ragionevolezza e l'utilità di una tal repubblica.

    1. Di ciò che non esistette mai, né esisterà né si spera che esista, è inutile e vano l'occuparsene; ma un simile modo di vivere in comune affatto esente di delitti è impossibile, né mai si è veduto, né si vedrà, dunque inutilmente ci siamo di esso occupati. Argomento che Luciano usava contro la repubblica di Platone.

    2. Questa repubblica non può sussistere che in una sola città, non in un regno, poiché non si possono trovare luoghi affatto simili, adunque o sarà corrotta dai popoli soggetti, dal commercio, o dalle sedizioni che nasceranno contro una maniera di vivere sì austera.

    3. Questa repubblica vien immaginata ottima e che duri per sempre; ella prima non potrà durare per sempre perché necessariamente essa dovrà corrompersi alla fine, o essere invasa dalla peste pel lungo domicilio non essendo purificata dal vento, dalla guerra, dalla fame, dalle bestie feroci, se mai potrà sfuggire alla tirannia interna, o infine dal troppo numero dei cittadini, come diceva Platone della sua repubblica. Secondo, non potrà essere ottima poiché necessariamente vi saranno dei delitti come dice l'apostolo: si discessimus quia peccatum non habemus, ipsi nos seducimus, e parimenti Aristotile prova che la comunanza dei beni utili e delle mogli fa viziosa una repubblica contro Platone, e quando ci sembra aver sfuggito un male ne incontriamo una moltitudine.

    4. Quel modo di vivere è più secondo natura che è provato dall'uso di tutte le nazioni; ma il nostro è rigettato da tutte, dunque inutilmente e leggermente ne abbiam tenuto discorso.

    5. Nessuno vorrebbe vivere sotto leggi ed osservanze così severe e sotto tutela dei pedagoghi e questa repubblica sarebbe rovesciata dagli stessi cittadini, come addivenne a molti ordini religiosi viventi in comunità.

    6. È naturale agli uomini lo studiare le opere di Dio, il viaggiare pel mondo, cercare dovunque le scienze, far esperienza di tutto; ma gli abitanti di una tal repubblica sarebbero come i monaci che non studiano che sui libri, e quando intendono qualche cosa che in essi non si trova si scandalizzano e si conturbano; come ora appena credono alle osservazioni di Galileo, e anteriormente che Colombo avesse trovato un nuovo emisfero, perché S. Agostino lo nega.
    Ma, rispondendo prima in generale, in nostro favore sta l'esempio di Tommaso Moro, martire recente, che scrisse la sua repubblica Utopia imaginaria, sul cui esempio noi abbiamo trovate le istituzioni della nostra; e Platone parimente presentò un'idea della repubblica, che sebbene, come dicono i teologi, nella natura corrotta non può essere in tutte le parti posta in pratica, pure nello stato d'innocenza avrebbe ottimamente potuto sussistere, e Cristo appunto ci richiama allo stato d'innocenza. Aristotile istituì nello stesso modo la sua repubblica e molti altri filosofi. I principi parimente promulgano leggi che credono esser ottime; non perché s'imaginino che nessuno le trasgredirà, ma perché pensano che faranno felice chi le osserva. E S. Tommaso insegna che i religiosi non sono tenuti sotto pena di peccato ad osservare quanto vien prescritto nella regola, ma solo le cose più essenziali, quantunque sarebbero più felici osservandole tutte: devono vivere secondo la regola cioè adattare per quanto possono comodamente la loro vita alla regola. Mosè promulgò leggi date da Dio e istituì un'ottima repubblica, e finché gli Ebrei vissero a norma della medesima fiorirono; quando poi non ne osservarono le leggi decaddero. Così i retori stabiliscono le ottime regole di un buon discorso privo di ogni difetto. Così i filosofi imaginano un poema senza pecca, e tuttavia alcun poeta non sfugge ogni pecca. Così i teologi descrivono la vita dei santi, e nessuno o pochi di loro la imita. Qual nazione poi o qual individuo poté imitare la vita di Cristo senza peccato? Furono per questo scritti inutilmente gli Evangeli? non mai: ma perché facciamo ogni sforzo per accostarci il più che possiamo ai medesimi. Cristo stabilì una repubblica eccellentissima, priva d'ogni peccato che gli apostoli appena osservarono intieramente, poi dal popolo passò al clero, e finalmente ai soli monaci; e in questi ora persevera in alcuni, negli altri poi vedi ben pochi istituti conservarsi in armonia colla medesima. Noi poi presentiamo la nostra repubblica non come data da Dio ma come un trovato filosofico e della ragione umana per dimostrare che la verità del Vangelo è conforme alla natura. Che se in alcune cose ci scostiamo dal Vangelo, o sembriamo scostarci, ciò non si deve ascrivere ad empietà, ma alla debolezza umana che priva di rivelazione pensa molte cose essere giuste, che al lume della medesima non sono tali, come diremo della comunità dei matrimoni; e per questo abbiamo supposta la nostra repubblica nel gentilesimo che aspetta la rivelazione di una vita migliore, e vivendo secondo i dettami della ragione merita di averla. Quindi sono come catecumeni della vita cristiana; perciò dice Cirillo contro Giuliano: che ai gentili fu data la filosofia come catechismo per la fede cristiana. Noi poi ammaestriamo i gentili perché vivano rettamente se non vogliono essere abbandonati da Dio, e persuadiamo i cristiani che la vita di Cristo è conforme alla natura prendendo da questa repubblica l'esempio, come S. Clemente romano dalla repubblica socratica, e come fecero e il Grisostomo e S. Ambrogio.
    Egli è poi chiaro come con questa maniera di vivere vengano tolti tutti i vizi, poiché né i magistrati hanno ragioni di ambire i posti, e tutti gli ab si che nascono, sia dalla successione, sia dall'elezione, sia dalla sorte, stabilendo noi una specie di repubblica come quella delle grue e delle api celebrate da S. Ambrogio; così pure vengono tolte le sedizioni dei sudditi, che nascono sia dall'insolenza dei magistrati, sia dalla licenza di questi, o dalla povertà, o dalla troppa abbiezione ed oppressione.
    Così tutti i mali che nascono dai due opposti, dalle ricchezze e dalla povertà, e che Platone e Salomone considerano come l'origine dei mali della repubblica: cioè l'avarizia, l'adulazione, la frode, i furti, la sordidezza dalla povertà: la rapina, l'arroganza, la superbia, l'ostentazione, l'oziosità, ecc., dalle ricchezze.
    Così si distruggono i vizi che nascono dall'abuso dell'amore, come gli adulteri, la fornicazione, la sodomia, gli aborti, la gelosia, le discordie domestiche, ecc.
    Così i mali che procedono dal troppo amore dei figli o delle consorti; e la proprietà che tronca, come dice Sant'Agostino, le forze della carità, e l'amor proprio cagione di tutti i mali, come dice Santa Caterina in un dialogo; da qui l'avarizia, l'usura, l'illiberalità, l'odio del prossimo, l'invidia verso i ricchi e i grandi: noi accresciamo l'amore della comunità e togliamo gli odj che nascono dall'avarizia, radice di ogni male, così le liti, le frodi, le false testimonianze, ecc.
    Così tutti i mali del corpo e dell'anima che nascono o dal troppo lavoro nel povero, o dall'ozio nei ricchi, mentre da noi si scompartono le fatiche ugualmente.
    Così i mali che vengono dall'ozio nelle donne, e che corrompono la generazione e la salute del corpo e dello spirito, mentre noi le occupiamo di esercizi e delle virtù ad esse confacenti.
    Così i mali che nascono dall'ignoranza e dalla stoltezza, mentre nella nostra repubblica si vede tanta esperienza di dottrina in ogni cosa, e nella stessa fabbrica della città, ove con imagini e pitture a chi solo vi riguardi si insegnano tutte le scienze quasi in un modo storico.
    Così vien provveduto meravigliosamente contro la corruzione delle leggi.
    Finalmente siccome abbiamo sfuggito in ogni cosa gli estremi e ridotto tutte le cose a giusto mezzo, in cui sta la virtù, non può imaginarsi una repubblica più felice e più facile. E finalmente tutti i difetti che si sono notati nelle repubbliche di Minosse, di Licur , di Solone, di Caronda, di Romolo, di Platone, di Aristotile e di altri autori, nella nostra repubblica, a chi ben vi guarda, non vi si trovano, e felicemente si è provveduto a tutto, poiché essa è dedotta dalla dottrina delle primalità metafisiche, colle quali nulla vien negletto od ommesso.

    Ora alla prima difficoltà si è risposto che se non si può raggiungere esattamente l'idea di una tal repubblica, non per questo si è scritto inutilmente, mentre si propone un esemplare da imitarsi per quanto si può. Ma che essa sia pur possibile lo mostra e la vita dei primi cristiani in cui la comunanza fu stabilita sotto gli apostoli secondo testifica S. Luca e S. Clemente. E in Alessandria si è osservato l'istesso modo di vivere sotto S. Marco, come testifican Filone e S. Girolamo. Tale fu la vita del clero fino ad Urbano 1 ed anche sotto S. Agostino; e tale ora è la vita dei monaci che S. Grisostomo desidera, come possibile, introdotta in tutta la città di Costantinopoli, e che io spero doversi in futuro realizzare doo la ruina dell'Anticristo, come ne' miei profetali. Chi poi aristotelizzando la nega, è però costretto ad ammetterla possibile nello stato di innoc enza, sebbene non di presente. Ma i padri la suppongono praticabile anche ora, poiché Cristo ci ha ridotti a quel primo stato. E mentre Luciano, gentile e ateista, deride Platone per aver imaginato una repubblica impossibile, S. Clemente,. Ambroo e Grisostomo lo lodano, e esti per dottrina e per santità sono bene da anteporsi a mille Luciani.

    Alla seconda obbiezione. Noi abbiamo per questo attribuito un tal modo di vivere solo alla capitale. 1 villaggi poi imiteranno un tal modo o in parte, o nel tutto, quando più di essi si uniranno a formare una provincia. Luoghi adatti poi si troveranno facilmente, e dove manchino varieremo la forma, in modo che nel più alto del monte sia il capo della città, nelle appendici semicircolari poi le abitazioni, e al piano il nostro modello sarà pur buono, se non vi si oppone il fango, che si può schivare selciando le vie e scavando acquedotti. Perché poi gli abitanti non siano corrotti dal commercio si è provveduto nel testo coi magistrati a ciò deputati, ed a fuggire le sedizioni esterne valgono le rocche ben munite della metropoli e le milizie che percorrono di continuo per la difesa dell'impero, e più la probità della città dominante, il servire alla quale è una felicità come per gli ignoranti è bene servire al sapiente e al probo e più coll'opinione di probità che colla forza Roma accrebbe l'impero, e sotto Pompilio stimarono nefando usare dei mezzi contrari alla virtù contra i nemici.

    Alla terza obbiezione. Essa durerà fino ad uno dei periodi generali delle cose umane che dan origine ad un nuovo secolo. Poiché quanto alla peste, alle fiere, alla fame, alla guerra, abbiamo provveduto ottimamente per quanto si può colla virtù o almeno assai meglio di quel che si soglia fare altrove, poiché i venti per le quattro vie maggiori purgano la città, e dove sono impediti dalle case suppliscono le finestre, poste in modo da chiudersi alle cattive esalazioni e da aprirsi alle salubri. Quanto al numero degli abitanti vedi la metafisica. Dico questa essere una via ottima e di cui si deve più aver cura che della durata. Certo vi saranno dei peccati, ma non gravi, come negli altri Stati o almeno non tali che ruinino la repubblica come risulta dagli ordini stabiliti. Ciò poi che Aristotile obbietta ad una tale repubblica verrà sciolto nei susseguenti articoli.

    Alla quarta obbiezione. Dico che tal repubblica, come il secolo d'oro, vien da tutti desiderata e chiesta da Dio quando si domanda che la sua volontà sia fatta così in cielo come in terra. Non vien però praticata per la malizia dei principi, che a sé non all'impero della somma ragione sottomettono i popoli. Dall'uso poi e dall'esperienza è provato essere possibile quanto abbiam detto; come è più secondo natura il vivere conforme alla ragione che all'affetto sensuale, e virtuosamente di quel che viziosamente, secondo Grisostomo. E i monaci sono di ciò una prova, e ora gli anabatisti, che vivono in comune, che se ritenessero i veri dogmi della fede, più profitterebbero in questo modo di vita; e volesse il cielo che non fossero eretici, e praticassero la giustizia come noi professiamo: che sarebbero un esempio della sua verità; ma non so per qual stoltezza rifiutano il migliore.

    Alla quinta obbiezione. Ella è anzi una somma felicità il vivere virtuosamente, come dice Grisostomo, e dove commettendo errore sei tosto corretto, avanti che sopporti gli effetti dell'errore. La licenza è causa dei mali, ed è felice quella necessità che ci sforza al bene. Ma, a noi avvezzi al male, sembra duro questo genere di vita, come ai giuocatori e ai discoli la vita dei buoni cittadini: e a questi la vita dei monaci. Ma provate, e vedrete i religiosi non mai per la severità della disciplina si rivoltano, ma se avviene è pel commercio dei laici, per l'ambizione degli onori e l'amore della proprietà o per libidine, ma nella nostra repubblica si è provveduto e sfuggito tutte queste cagioni. Dunque non prova l'esempio di quelli.

    Alla sesta obbiezione. Noi anzi cerchiamo di far tesoro per la nostra repubblica delle osservazioni dell'esperienza, della scienza di tutta la terra, e a questo fine abbiamo stabilito peregrinazioni, comunicazioni di commercio e ambasciate. Né i monaci si privano di questi beni mutando spesso città e provincia, né l'ignoranza dell'esperienza si dà a vedere nei migliori monaci, ma solo nei volgari. Le loro querele poi giovano perché meglio si discutono le cose, e si rischiarano, e alla fine si acquietano pure tutti i virtuosi. E tu non troverai che in alcun luogo più si sia fatto per la dottrina e la conservazione delle scienze che negli ordini dei monaci e dei frati. E i monaci antropomorfiti, insorti contra Origene ad istigazione del maligno Teofilo patriarca, non ottennero nulla dopo un esatto esame. Ma è chiaro che tali sedizioni non avverranno nella città del Sole. Il monachismo è stato ritrovato per l'aumento della santità e della scienza, non per rendere pesante la sudditanza, come pretendono gli ipocriti.

  4. #14
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    Predefinito ..........di Tommaso Campanella.......1637

    ARTICOLO SECONDO

    Se sia più conforme alla natura, e più utile alla conservazione e all'aumento della repubblica e dei particolari, la comunanza dei beni esterni come sostengono Socrate e Platone, oppure la divisione difesa da Aristotile.

    Prima obbiezione. Contro la comunanza dei beni Aristotile nel 2° libro della Politica argomenta in questo modo: o in questa comunanza, dice, i campi sarebbero propri e i frutti comuni o viceversa, o sì gli uni che gli altri comuni. Nel primo caso chi avesse più suolo dovrebbe più lavorare per coltivarlo, e avere egual parte di frutti con quelli che non lavorano, e da qui nascerebbero discordia e ruina. Nel secondo caso nessuno sarebbe stimolato al lavoro, e i campi sarebbero mal coltivati, poiché ognuno pensa più a sé che alle cose comuni, e dove v'è una moltitudine di servi il servizio è peggiore, mentre ognuno rimette sull ' 'altro il lavoro che dovrebbe fare. Nel terzo caso avverrebbe lo stesso e inoltre un nuovo male, poiché ognuno vorrebbe avere la migliore e la più gran parte nei frutti, e la minore nelle fatiche, e quindi invece dell'amicizia, non vi sarebbe che discordia e frode.

    Seconda obbiezione. Contro la comunanza dei beni utili si obbietta essere necessarie più classi di persone pel buon governo della repubblica, come soldati, artefici e governatori, secondo Socrate: che se tutte le cose fossero comuni, ognuno rifiuterebbe le fatiche dell'agricoltore, e vorrebbe esser soldato e in tempo di guerra vorrebbe essere agricoltore, e non combatterebbe senza stipendio; o meglio ancora tutti vorrebbero essere rettori, giudici o sacerdoti. Così onorando alcuni, si aggraverebbero gli altri, aggravando i primi di minor lavoro, e quindi vi sarebbe ancora dell'ingiustizia, come per lo innanzi; è dunque meglio dividere i beni.

    Terza obbiezione. La comunanza distrugge la liberalità e la facoltà di esercitare l'ospitalità, di soccorrere i poveri, poiché chi nulla possiede del suo non può fare alcuna di queste cose.

    Quarta obbiezione. L un'eresia il negare la giustizia della divisione dei beni, come sostiene S. Agostino contro quelli che aveano in comune le donne e i beni e dicevano di vivere in tal modo alla maniera degli apostoli. E Soto nel lib. de Just. et Jure, dice che il concilio di Costanza condanna Giovanni Uss che nega potersi possedere qualche cosa in particolare; e Cristo disse: reddite quae Caesaris Caesari.

    In contrario rispondiamo prima in generale colle parole di S. Clemente papa nell'epist. 4, e che sono riferite da Graziano nel can. 2, quest. I. - Carissimi, l'uso di tutte le cose che sono in questo mondo dovea essere comune, ma per iniquità, l'uno disse essere sua questa cosa, l'altro quell'altra, ecc., e dice che gli apostoli hanno insegnato e vissuto in modo che tutto fosse in comune, anche le donne. E così insegnano tutti i Padri commentando il principio della Genesi, poiché Dio non distribuì nulla e lasciò tutto in comune agli uomini perché crescessero, moltiplicassero e riempissero la terra. Così insegna Isidoro nel capo del jus naturale; e che gli apostoli abbiano vissuto in tal modo e tutti i cristiani primitivi si vede da S. Luca, S. Clemente, Tertulliano, Grisostomo, Agostino, Ambrogio, Filone, Origene ed altri; questa vita fu poi ristretta ai soli chierici che viveano in comune come testificano gli stessi e S. Girolamo, Prospero e Urbano papa e altri. Ma sotto il papa Simplicio, circa l'anno 470, fu fatta dal medesimo la divisione dei beni della Chiesa per modo che una parte toccasse al vescovo, l'altra alla fabbrica, l'altra al clero, ed una ai poveri. Poscia Gelasio papa poco dopo e S. Agostino non volevano ordinar chierici se non ponevano tutto in comune. Ma in seguito per non fare degli ipocriti che celavano il proprio' lo si permise, ma non volentieri. Perciò è un'eresia il condannare la vita comune, o il dirla contro natura. Anzi S. Agostino pensa che il togliere la proprietà è cagione di maggior splendore. Quindi sì per la presente che per la futura vita è migliore la comunanza dei beni. E S. Grisostomo insegna che questo genere di vita passò nei monaci ed egli la adotta, la insinua e la predica a tutti, e insegna nell'omelia al popolo di Antiochia che nessuno è padrone de' suoi beni ma solamente è dispensatore, come il vescovo di quelli della Chiesa, e quindi ogni laico il quale abusa de' suoi beni e non ne comunica agli altri, esser colpevole. S. Tommaso dice che siamo padroni della proprietà, non dell'uso, poi nell'estremo bisogno tutte le cose sono comuni. Perciò, se bene rifletti, una tale proprietà è piuttosto un peso per l'obbligazione di render conto della mala distribuzione, e ciò vien affermato da S. Basilio nel sermone ai ricchi, e da S. Ambrogio nel sermone 81, e S. Grisostomo lo inculca in quasi tutte le sue omelie e particolarmente sopra S. Luca al cap. 6 ove si trovano queste parole: nemo dicat proprio a Deo percipimus omnia: mendacii verba sunt meum et tuum. Lo stesso afferma Socrate nella Repubblica di Platone o del Timeo, lo stesso S. Agostino nel trattato 8° sopra Giovanni e il poeta Cristiano:

    Si duo de notris tollas pronomina rebus,
    Praelia cessarent, pax sine lite foret.
    E Ovidio nelle Metamorfosi I, pone tal vita nel secol d'oro. E Ambrogio sopra il salmo 118 alla lettera L, dice: Dominus noster terram hanc possessionem omnium hominum voluit esse communem: sed avaritia possessionum jura distribuit: e nel libro de Virg. dice che la violenza, la strage e la guerra distribuirono le cose agli ebrei carnali, non però ai leviti, che figuravano il cristianesimo e il clero. S. Clemente poi afferma che ciò fu per l'iniquità dei gentili. E lo stesso S. Ambrogio nel lib. I degli Uffizi, cap. 28, prova colla scrittura e coll'autorità degli storici tutte le cose essere comuni, ma per usurpazione essere state divise, e lo stesso negli Hexam. V, insegna coll'esempio della repubblica civile delle api la vita in comune, tanto dei beni che della generazione, e coll'esempio delle grue sviluppa la vita comune in una repubblica militare. E Gesù Cristo coll'esempio degli uccelli che non hanno nulla di proprio, che non seminano né mietono, né dividono la pastura; eppure, come dice il giurisperito: jus naturale est id quod natura omnia animalia docuit. Per cui egli è certissimo essere per diritto naturale tutte le cose comuni.
    Scoto nel 4 delle sentenze 15, risponde che la comunanza è di diritto naturale nello stato di natura, ma Adamo avendo peccato fu derogato a tal diritto. Ma vana è questa risposta poiché, come dice S. Tommaso, il peccato non distrugge i beni di natura, ma solo quelli di grazia. Esso offese la natura e la ragione, ma non introdusse un nuovo diritto; quindi se la comunanza fu di diritto, la sola ingiustizia poté introdurre la divisione. Perciò anche la glossa sul testo di S. Clemente dice che essa fu introdotta: per iniquitatem, idest per jus gentium contrarium juri naturali.

    Ma come vi può essere diritto se è contrario alla natura, che è l'arte divina? Così il diritto sarebbe un peccato. Scoto risponde che ciò avviene per l'iniquità, cioè pel peccato originale, ma questo commento è vano, poiché come spiegherà le parole di S. Ambrogio, che dice la divisione introdotta dall'avarizia e dalla violenza? Di più S. Clemente dice che gli Apostoli ci hanno rimessi nello stato dijus naturale; adunque questa che fu iniquità lo è pur ora. Gaetano insegna che fu una comunanza naturale « negativa », cioè che la natura non insegnò la divisione: ma non « affermativa », come se avesse detto di vivere in comune e non altrimenti. E Scoto vi aderisce come al solito, ma aggiunge, come mai allora la divisione verrebbe dall'iniquità e dall'avarizia, come insegnano i santi, se la comunanza nello stato di natura non fu che negativa? Quindi con più ragione S. Tommaso insegna l'uso comune essere di diritto naturale, la distribuzione poi e l'acquisto della proprietà essere di diritto positivo. E questa divisione non può essere contraria alla natura, poiché questa proprietà è nel caso di necessità, e in tutto ciò che succede, il necessario divien comunità, come insegna parlando dell'elemosine; poiché tutto ciò che eccede i bisogni della persona e della natura, si deve donare, altrimenti non sarebbero condannati nel giorno del giudizio quelli che non sollevarono i bisognosi. E sebbene questa dottrina di S. Tommaso sembri giustificare in qualche parte la divisione, non le accorda però che il diritto di distribuire e di sollevare, e resta, giusta la dottrina di S. Grisostomo, Basilio, Ambrogio e Leone papa (ser. V, de Collectis), che i ricchi sono dispensatori non padroni delle cose; che se poi sono padroni, non lo sono che di distribuire e di donare, come i vescovi della parte della Chiesa; la parte poi di cui sono padroni si limita al puro vitto e vestito. E questa parte la hanno pure i monaci, come loro la attribuisce e prova Giovanni papa XXII nelle Extrav. Poiché di diritto e non ingiustamente mangia il monaco e l'apostolo, quindi ha l'uso di diritto, non di solo fatto, giacché questo ultimo diritto lo ha il ladro quando mangia le cose altrui. Scoto pensa che questo papa errasse, ed abbia deciso ciò per odio contro i Francescani, poiché Clemente V e Nicola III, pontefici, accordano ai Francescani soltanto l'uso di fatto, non di diritto, come un invitato a cena mangia solo di fatto non di diritto. Ma Scoto s'inganna, e ingiustamente condanna un papa, poiché quei pontefici da lui citati non distruggono il diritto di gius naturale, ma solo il diritto positivo, quindi S. Tommaso pensa che nelle cose che si distruggono coll'uso non si può distinguere l'uso dal dominio, come si vede nel trattato dell'usufrutto delle cose che si consumano coll'uso (lib. 2). Perciò questi pontefici non si contraddicono tra di loro, come insegna Giovanni XXII, ma è bensì eretico chi nega l'uso di diritto agli Apostoli e a Cristo; poiché allora non avrebbero mangiato di diritto, ma ingiustamente come il ladro. Il ladro ha il diritto di fatto ma nella necessità ha anche il diritto naturale. Da tutto questo risulta la solidità della dottrina dei Santi, contro gli sciocchi che mettono la bocca in cielo. L'invitato mangia di diritto, e il suo titolo è la donazione, non minore del titolo di vendita. Ma, dirai: i ricchi sono dunque obbligati alla restituzione del superfluo, e a chi? ai poveri o alla repubblica? direi alla repubblica e ai poveri, ma perché non vi è luogo a disputa poiché questi non hanno acquistato un diritto positivo, dico a Dio, a cui dovranno render ragione nel giorno finale, come insegnano S. Basilio, Ambrogio e Leone.
    Adunque colla nostra repubblica vengono tranquillizzate le coscienze, tolta l'avarizia, radice di ogni male, e le frodi commesse nei contratti, e i furti e le rapine e la mollezza e l'oppressione dei poveri, e l'ignoranza che invade anche gli ingegni meglio disposti, perché rifuggono dalla fatica mentre pretendono filosofare, e le inutili cure, e le fatiche, e il danaro che mantiene i mercadanti, e la illiberalità, e la superbia, e gli altri mali prodotti dalla divisione' e l'amor proprio, e le inimicizie, e le invidie, e le insidie, come si è mostrato. Distribuendosi gli onori secondo le attitudini naturali si tolgono i mali che nascono dalla successione, dall'elezione e dall'ambizione, come insegna S. Ambrogio parlando della repubblica delle api, e così seguiamo la natura che è l'ottima maestra, come nelle api. E l'elezione di cui noi facciamo uso non è licenziosa, ma naturale, eleggendo quelli che si distinguono per le virtù naturali e morali.

    Ora rispondendo in particolare alla prima obbiezione, diciamo che Aristotile commette errore spontaneamente e di mala fede, poiché anche per Platone e i fondi e i frutti e le «fatiche» sono comuni; e nella nostra repubblica vengono distribuite dai magistrati dell'arti le fatiche secondo la capacità e la forza, ed eseguite dai capi delle arti con tutta la moltitudine, come si vide nel testo; né da alcuno può usurparsi nulla, nutrendosi tutti a tavola comune e ricevendo le vesti dal magistrato del vestiario, secondo la qualità e le stagioni, e conformi alla salute; e ciò pure si vede fare dai monaci e dagli apostoli. Quindi Aristotile ciarla inutilmente. Non hai che da esaminare nel testo il modo della distribuzione dei vestiti secondo le stagioni, le fatiche e le arti e la esecuzione, ecc., né alcuno può far difficoltà, poiché tutte le cose sono fatte con ragione, anzi ognuno ama di fare ciò che è conforme alla sua disposizione naturale, ciò che appunto praticasi nella nostra repubblica.

    Alla seconda obbiezione si risponde, che ciascuno vien applicato dai Magistrati fin dall'infanzia, secondo le disposizioni naturali, alle varie arti, e chiunque per esperienza e per dottrina riesce ottimo, si prepone all'arte per cui è idoneo. Sommi magistrati poi non possono divenire se non gli eccellenti, secondo l'ordine notato nel testo. Quindi né il soldato vorrebbe divenir capitano, né l'agricoltore sacerdote, dandosi gli incarichi secondo l'esperienza e la dottrina, non per favore e per parentele: ma adeguati alle cognizioni. E ciascuno riceve l'ufficio nel ramo in cui si distingue. Né i primi magistrati possono onorare gli uni e reprimere gli altri, non governando arbitrariamente, ma seguendo la natura, applicano ciascuno all'ufficio conveniente. E non possedendo nulla in proprio per cui possano violare il diritto altrui per ingrandire i figliuoli, conviene loro agir bene per essere onorati, e considerando tutti come fratelli e figli e parenti si mantiene un egual amore per tutti senza alcuna distinzione. Nessuno combatte per paga, ma per sé, pei figli e pei fratelli, né alcuno ha bisogno di stipendio, avendo ognuno da vivere bene, ma dell'onore che le azioni valorose ottengono dai fratelli. 1 Romani fino alla guerra di Terracina combatterono senza stipendio e gareggiavano a morir per la patria; ma quando invase l'amore della proprietà, mancò a poco a poco la virtù. E Sallustio e S. Agostino insegnano che essi giunsero a tanto impero per l'amore della comunità, e Catone in Sallustio dice: pubblicae opes et privata paupertas, foris justum imperium, intus indicendo animus liber, neque formidini neque cupiditati obnoxius, rem Romanam auxere. Nella nostra repubblica poi queste cose assai migliori si conservano per la comunanza dei beni utili e onesti sotto la guida della natura.

    Alla terza obbiezione. Inconsideratamente parla Aristotile, e anche Scoto, per non dire ampiamente. Forse che i monaci e gli apostoli non sono liberali perché non posseggono in proprio? La liberalità non consiste nel dare quello che hai usurpato, ma nel porre tutto in comune, come afferma S. Tommaso. Nel testo poi vedrai come dalla repubblica si onorino gli ospiti, e come si sovvenga ai miseri per natura, poiché presso di noi non vi ha alcun misero per fortuna, essendo tutte le cose comuni, e tutti fratelli, e sono indicati i mutui uffici con cui si mostra la liberalità: e se ne insti dirò: che essi hanno mutata la liberalità in beneficenza che è alla prima superiore.

    Alla quarta obbiezione. Scoto argomenta con punica fede, come al solito, poiché lo stesso Agostino al cap. 4 de haeres; e S. Tommaso 2, 2 quest. 66, art. 2, insegna essere eretici quelli che dicono non potersi salvare coloro che possedono in proprio qualche cosa, e parimente quelli che sostengono doversi usare il vago concubito delle donne, ma non perché predicano la comunità, ché anzi è maggior eresia il negar la comunità, che gli apostoli e i monaci osservano, di quel che la divisione. Concediamo poi che la Chiesa poté accordare la divisione piuttosto tollerantemente che positivamente e direttamente. Ma, come dice S. Agostino, che pur vuole avere piuttosto chierichi zoppi che morti, cioè piuttosto proprietari che ipocriti. E lo stesso Scoto poi sostiene che la divisione fu introdotta per la negligenza con cui son trattate le cose comuni, e la cupidigia del proprio interesse, quindi da cattiva radice, e perciò la divisione non può esser buona cosa, ma solo permessa, non voluta dalla natura. Ora come ardisce poi egli chiamar eretici quelli che seguitano la natura, e lodare quelli che predicano con Aristotile la permissione introdotta dalla corruttela? Diciamo che la Chiesa può accordare la divisione e permetterla, come tolleransi le meretrici per minor male, come i zoppi piuttosto che i morti, al dire di Agostino. Il modo poi con cui vien dalla Chiesa accordata la proprietà si è spiegato che non è se non una procura, non l'uso del superfluo, e Alessandro, Alonzo e Tommaso Valden e Ricardo e il Panormita, pensano essere eretico chi asserisce i chierici essere veri padroni dei beni della Chiesa, e non accordano ai medesimi che l'uso. S. Tommaso non dà loro il dominio che della piccola porzione che consumano poiché non sono che usufruttuari dei fondi, né possono lasciargli ai figli o agli amici. Cosa poi sia dei laici si è detto superiormente. Gli ignoranti sono pronti a chiamar eretico quello che non possono convincere colle ragioni. La parola di Cristo: Reddite quae sunt Casaris Casari, non rende padrone il medesimo se non di dispensare, o di nulla, poiché nulla appartiene a Cesare. Che cosa ha egli che non abbia ricevuto? Tutte le cose adunque sono di Dio e a Cesare solo come amministratore. Vedi nella Monarchia del Messia ove si è scritto di ciò. Lo stesso Cristo dice: reges gentium dominantur eorum, vos autem non sic, sed qui maior est fiat minister. Perciò giustamente predica S. Tommaso la proprietà di amministrazione e procura la comunità dell'uso. E il papa è il servo dei servi di Dio, e l'imperatore il servo della Chiesa.

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    Predefinito ......di Tommaso Campanella.......1637

    ARTICOLO TERZO

    Se la comunanza delle donne sia più conforme alla natura e più utile alla generazione e quindi a tutta la repubblica, oppure la proprietà delle mogli e dei figli.


    Ad Aristotile sembra più conveniente la proprietà e nociva la comunanza a cui oppone:

    Prima obbiezione. Socrate pensa che l'amore si accrescerebbe tra i cittadini da ciò che ognuno considererebbe i vecchi come suoi genitori, e questi i giovani come figli, e gli eguali come fratelli, ma ciò distruggerebbe anzi ogni amore. Poiché o si prende quel « tutti » collettivamente ed è vero che tutti i vecchi sono padri di tutti i giovani, ma allora l'amore di ciascun vecchio in particolare sarebbe ben piccolo verso quelli, come una goccia di miele in molta acqua, e tosto si estinguerebbe, perché nessuno conoscerebbe i propri figli, né questi il loro padre. in vero se si riunisce il diviso in modo che ciascuno si consideri padre di ciascuno, ciò accrescerebbe l'amore, ma è impossibile che alcuno abbia più di una madre e un padre; di più ognuno conoscerebbe i propri figli dalla fisonomia e quindi avrebbe più affetto per questi.

    Seconda obbiezione. Nascerebbero discordie tra le donne e spesso tra i padri e i figli incerti.

    Terza obbiezione. Nel vago concubito non si conosce la prole ed è pur naturale all'uomo il voler conoscere la propria discendenza in cui si perpetua.

    Quarta obbiezione. Nascerebbero adulterii, fornicazione ed incesti, colle sorelle, le madri e le figlie, e le gelosie per le donne, e le contese per quelle che vorrebbero abbracciare.

    Quinta obbiezione. Scoto obbietta le parole: erunt duo in carne una; adunque non si possono avere più mogli senza una dispensa divina.

    Sesta obbiezione. Fu l'eresia dei Nicolaiti il mettere le mogli in comune.

    Rispondiamo prima in generale coll'autorità di S. Clemente nel citato canone: conjuges secundum Apostolorum doctrinam comunes esse debere. Ma siccome questo sarebbe contro l'onestà cristiana si deve ammettere la glossa a questo passo apposta: comunes quo ad obsequium non quo ad thorum. E a dir vero, come testifica Tertulliano, così vissero i primi cristiani, che tutto aveano in comune tranne le donne pel talamo, poiché è palese che le donne servivano tutti. Ma i Nicolaiti introdussero la comunità nel talamo, ed io pure condanno questa eresia, ma sostengo la comunanza nelle funzioni, non però nel governo politico; poiché la donna non può essere magistrato né insegnare agli uomini, ma solo tra le donne e nel ministero della generazione. Alle stesse poi son commesse le arti che si eseguiscono con poca fatica o anche la guerra nella difesa delle mura. E noi leggiamo che le donne spartane difesero la patria nell'assenza dei mariti, e le femmine tra gli animali si battono come i maschi, e le amazzoni un tempo nell'Asia ed ora nell'Africa fanno la guerra. Ma Gaetano nel libro de Pulchro, dice che ciò non è conforme alla natura, e perciò esse doveano tagliare la destra mammella per poter maneggiare la lancia. Ma io dirò forse con maggior fondamento con Galeno, che lo facevano perché la forza che serviva a nutrire la destra mammella passasse a rinforzare il braccio destro. Né la destra mammella impedisce punto di maneggiare la lancia, ma solo di appoggiarla al petto. Inoltre vi sono più maniere di combattere che convengono alle donne come si vede negli Africani. Aristotile poi non poté rifiutare questo argomento delle amazzoni. E noi pure non le mischiamo a tutte le faccende di guerra ma solo alla difesa delle mura, ai pronti soccorsi, e non vogliamo di esse formare una repubblica di Amazzoni, e solo le rinforziamo perché servano alla difesa e alla prole. Aristotile rigetta l'argomento delle femmine che combattono tra le fiere, perché queste non hanno cura delle cose famigliari come le nostre che sole vi sono destinate dalla natura, ma s'inganna, poiché le fiere hanno cura dei loro piccoli, e procurano ad essi cibo e difesa, e viceversa molti uomini si occupano delle cose famigliari, come particolarmente i monaci; adunque non è contro natura come egli insegna.
    Diremo di più che la comunanza delle donne pel concubito non è contro il naturale diritto particolarmente come fu stabilita da noi, che anzi vi è grandemente conforme: quindi non è eresia l'insegnarla in uno stato diretto dai puri lumi naturali, ma bensì dopo conosciuto il jus divino ed ecclesiastico positivo: come non è eresia il mangiare carni tutti i giorni e l'insegnare nello stato naturale che ciò è utile, ma dopo la promulgazione della legge ecclesiastica sulla proibizione dei cibi in certi giorni per l'astinenza cristiana, è un'eresia il farne uso e l'insegnare ciò esser lecito. Si prova inoltre; ogni peccato contro natura o distrugge l'individuo, o la specie, o è diretto a questa distruzione, come insegna S. Tommaso; quindi le uccisioni, il furto, la rapina, la fornicazione, l'adulterio, la sodomia, ecc., sono contro natura, perché offendono il prossimo o impediscono la generazione o tendono a queste cose; ma la società comune delle donne non distrugge né le persone, né impedisce la generazione, dunque non è contro l'ordine, ma al contrario giova grandemente all'individuo, alla generazione e alla repubblica, come appare dal testo.

    Si deve poi notare che vi ha tre specie di vago concubito; l'uno, per cui ciascuno può mischiarsi ad ognuno che desidera e come vuole, e questo è contro la natura razionale dell'uomo, quantunque sia proprio di alcune bestie, come dei cavalli, degli asini, delle capre, ecc., e quindi la natura provvide che queste bestie solo in certi tempi sentano gli stimoli alla generazione; gli uomini poi, essendo sempre ad essa disposti, se potessero mischiarsi con ciascuna, si indebolirebbero di continuo, e tutti andrebbero sempre dalle più belle, e queste per la confusione dei semi e per l'azione contraria, non concepirebbero, come avviene alle meretrici. Le donne brutte, poi eccitate da gelosia e da dolore, macchinerebbero ogni male contro le belle. Perciò questo vago concubito è un'eresia e un'empietà contro natura, e fu appunto quella dei Gnostici e dei Nicolaiti, e di alcuni moderni eretici e alcuni religiosi della setta di Maometto nell'Africa, che tengon lecito l'unirsi a ciascuna, e anche in publico.

    L'altro genere di concubito vago, è quello dopo le nozze legali, ragunandosi in certi tempi, e a cui nelle tenebre è lecito unirsi a quello che la sorte gli offre: come si è scoperto di recente nella Gallia e in Germania in certe contrade: onde avvenne che cert'uni, ricevuto il segno, riconobbero di essersi uniti alle madri, e questo modo è pure un'eresia contro natura, e certo contro la legge divina positiva, poiché non ha per iscopo la generazione, ma la sola libidine: e l'unione vaga delle bestie è ancora migliore, poiché esse generano, né è contro natura poiché vien prodotta la prole, ma in queste unioni di eretici è solo per accidente se viene la generazione, non avendo per iscopo che la lussuria, poiché per la generazione bastano bene i mariti a casa.

    Il terzo modo di concubito finalmente è quello da noi descritto in una società quasi di natura, nella quale cioè non generino se non i più robusti e i migliori, e seguendo la direzione dei medici e dei magistrati, nei tempi atti alla generazione, secondo l'astrologia, con timore e ossequio alla divinità, e solo dopo gli anni 25 sino ai 53; alle donne pure abbiamo prescritto un tempo, quello cioè in cui sono a ciò atte, e abbiamo distrutte le unioni inconvenienti, quelle cioè che si fanno per solo riguardo delle ricchezze, per cui o la repubblica non ha prole dalle medesime, o ne ha una vile, deforme e imbecille, come si vede dall'esperienza, e fu notato da Pitagora sommo filosofo. Abbiamo impedita ugualmente la debolezza prodotta dal troppo coito o le malattie da sterilità; poiché se l'una non concepisce con questo, può concepire con quello, e la natura ci insegna appunto in questo caso a mutare. Ciò poi che le nostre leggi hanno stabilito: che ciascuno non usi che colla propria moglie ancorché sterile, non può essere facilmente coi soli lumi naturali approvato dal filosofo; perciò io non sostengo se non che gli istitutori di una repubblica colla comunanza delle donne non peccano nello stato dei puri lumi naturali, avanti che la rivelazione insegni non doversi così praticare. Onde Durando ed altri sostengono che nemmeno la fornicazione non è contro la legge naturale, e molti teologi confessano non essere essa proibita che per legge positiva; e la ragione di S. Tommaso che essa è contraria alla generazione e all'educazione, non vale quando si sappia che la donna è sterile. E tuttavia io sono d'accordo in ciò con S. Tommaso che con lunghe deduzioni si può ciò provare colla pura ragione, ma non però conoscere da tutti. Così Socrate non peccò bevendo il veleno, costretto dalla legge, quantunque i teologi provino essere peccato, poiché nessuno può essere obbligato dalla legge ad agire contro se stesso. Ma queste sottili deduzioni nate dalla luce evangelica non potevano essere conosciute dagli antichi filosofi che anzi provarono essere lecito l'uccidersi da sé, ed essere noi padroni della propria vita, come stimarono Catone, Seneca e Cleomene. In conseguenza io sostengo che la comunità delle donne nel modo da noi posta non è contro il diritto naturale, o se lo è non può esser conosciuto dal filosofo coi soli lumi naturali, poiché ciò non si deduce direttamente dal diritto naturale, come conclusione immediata, ma solo come lontana deduzione, e piuttosto fondata sul diritto positivo, che può variare. Le ragioni poi di Aristotele non nascono dalla natura della cosa, ma da sola invidia contro Platone; ed egli stesso ricorda molte nazioni che vissero in questo modo. Viene pure a nostro sostegno S. Tommaso che nella 2, 2 quest. 154, art. 9 confessa che nessuna congiunzione è contro natura, tranne quella del figlio colla madre, e del padre colla figlia; poiché gli stessi cavalli, secondo Aristotile, hanno ciò in orrore. Ed io stesso vidi a Montedoro un cavallo che non voleva unirsi colla madre. E non perché non ne venga la generazione, ma per reverenza naturale. E tuttavia, secondo la testimonianza di Tolomeo, fu comune usanza tra i Persiani l'unirsi alle madri. E tra gli animali, i gallinacci e molti altri praticano lo stesso. lo tuttavia nella repubblica ho schivato che le madri si unissero ai figli, o i padri alle figlie, quantunque quest'ultimo caso sia meno contro natura. Gaetano pure prova, appoggiato allo spirito di S. Tommaso e alla ragione naturale, che l'unione colla sorella o cogli affini e consanguinei, non è contro il diritto naturale, ma solo contro il legale; ed essere un precetto giudiziale, non morale, la proibizione degli altri gradi; poiché i figli di Adamo si unirono colle sorelle, e Abramo e Giacobbe patriarchi, al primo dei quali Sara era sorella. E S. Tommaso adduce due ragioni di queste proibizioni, cioè pel rispetto ai parenti, perché potessero vivere insieme senza scrupolo, e perché si moltiplicassero le amicizie per mezzo dei matrimoni, e la libidine non riescisse più dolce col proprio sangue. Ragioni che secondo Gaetano decisero pure la legge cristiana. Ma nella repubblica solare non avrebbero luogo, poiché le donne abitano separatamente e non avviene l'unione se non secondo la legge, i tempi e i luoghi prefissi. Ciò poi che si accorda nella repubblica solare, per fuggire la sodomia e un mal maggiore, si accorda pure nella religione cristiana; poiché il marito può usare senza peccato della moglie ancorché gravida, per estinguere la libidine, e non per la generazione. lo poi provvidi affinché questo seme non vada perduto, e diedi tutti i miei precetti per la conservazione della repubblica; gli altri poi non sono riprovati dagli stessi filosofi secondo il diritto naturale, e Aristotile in grazia della salute raccomanda il coito ai non generanti, come pure Ippocrate ed altri per ischivare mali maggiori.

    Ora in particolare rispondo alla prima obbiezione. Che quel tutti si può prendere nei due sensi: poiché tutti fino ad una certa età, determinata nel testo, sono padri di tutti collettivamente e separatamente: il primo è vero, secondo l'atto naturale, l'altro poi secondo la carità naturale. Né da ciò vien diminuita la carità, ma solo la cupidità e l'avarizia; poiché l'uomo, regnando la divisione, è disposto ad amare i proprj figli più che non conviene, e a disprezzare gli altrui oltre misura. L'uomo saggio poi ama più i migliori ancorché d'altri, ed ha maggior cura dei cattivi per migliorarli: poiché riesce spiacevole il vedere tante deformità nel genere umano, e quindi abbiamo orrore dei zoppi, dei ciechi, dei miserabili perché sono del nostro genere e rappresentano a ciascuno la propria infelicità. Per la comunanza poi dei figli, dei fratelli, dei padri, delle madri, si provvede in modo da diminuire il troppo amor proprio che è la cupidità, e da aumentare l'amor comune cioè la carità. Quindi S. Agostino disse amputatio proprietatis est augmentum caritatis e si deve piuttosto credere a S. Agostino che ad Aristotele, e col primo sta pure S. Paolo che dice: caritas non querit quae sua sunt, cioè antepone le cose comuni alle proprie, non le proprie alle comuni. Nell'unione dei monaci si vede lo stesso, poiché il monaco non possedendo nulla in proprio, ama la comunità come il piede tutto il corpo; se poi possiede in proprio è come un membro reciso, o un piede tagliato, non avendo cura che di ciò che è suo. Lo stesso avvenne nella repubblica romana; quando i cittadini erano poveri e la repubblica ricca, tutti volevano morire per la patria; quando poi i cittadini furono ricchi, ciascuno avrebbe ammazzato la patria pel proprio vantaggio. L'Apostolo adduce l'esempio delle membra e del corpo, e lo stesso insegnano Ambrogio e Grisostomo. L'amore dunque nella comunità non sarebbe come una goccia di miele in molt'acqua, ma come un piccol fuoco in molta stoppa. Poiché l'amore è una delle primalità, e di sua natura diffusivo, come il fuoco, ed esso è felice nella società di molti per la fama, la diffusione del nome, la memoria e gli ajuti più numerosi che vi riceve. Separatamente, quantunque ciascuno non sia figlio che di un solo, può esser amato da tutti quando formano un solo nella carità. Onde lo zio ama i nipoti quantunque da lui non generati, perché si considera di una stessa famiglia. E il papa e i cardinali chi non vede quanto amino i nipoti, e i consanguinei, che pure non hanno generati? E noi amiamo gli amici e i figli degli amici, e i vecchi nei monasteri amano i novizi, soprattutto i virtuosi; taccia adunque il nemico della carità. - La fisionomia inganna poiché i figli non rassomigliano sempre al padre, ma sovente agli estranei; e di poco ostacolo sarebbe quella piccola propensione nella nostra repubblica ove tutto è ordinato secondo la legge di natura e del merito. Giacobbe pure amò più Giuseppe, ed altri altri; ciò non pregiudicherebbe alla comunità né alla carità; i figli qui non congiureranno tra di loro, vivendo tutti sotto la stessa disciplina; le sante donne dei patriarchi, come Rachele e Lia, tenevano come loro propri anche i figli delle ancelle, ma Aristotile non conobbe una tal carità.

    Alla seconda obbiezione. Si nega la conseguenza quando il tutto è governato secondo le regole e la scienza dei medici, delle matrone e dell'astrologia. Dalla posizione del cielo nascono e si conoscono le inclinazioni morali, secondo S. Tommaso (Polit. 5, lect. 13). E i nostri Solari crederebbero illecito l'unirsi per puro piacere e per sanità, nei quai casi si è provveduto altrimenti; quanto alle risse vedi il testo.

    Alla terza obbiezione. Essendo tutti i membri di uno stesso corpo, considerano tutti i giovani minori per figli, e sanno di perpetuarsi meglio in quella comunità, che nei figli proprj. Inoltre, come tutti insegnano, la vita della fama procurataci dalle opere buone è da preferirsi a quella che abbiamo nei figli. Così i filosofi si procurano figli col seme della loro dottrina, non col seme carnale. Né i pidocchi quantunque nascano da noi son nostri figli. Né i veri figli di Abramo ora sono i giudei, ma i cristiani. L'eternità poi la cerchiamo in Dio, e per la repubblica una vita beata, come insegna Ambrogio. Né gli animali conoscono i loro figli una volta cresciuti; né questo viene direttamente, ma solo indirettamente da natura.

    Alla quarta obbiezione. Diciamo con Gaetano e S. Tommaso, non essere incesto contro natura che quello commesso colla madre, e noi lo schiviamo nella repubblica; colle sorelle poi e con altre non è che legale, e dove non siavi questa legge non vi ha inc 1 esto, né alcun adulterio. Poiché l'adulterio è o naturale o legale: il naturale avviene tra animali di diversa specie, come insegna Sant'Ambrogio nel 5 Hex. cap. 3, come tra l'asino e la cavalla: il legale è poi quando alcuno pratica la donna altrui, proibito dalla legge: ma nella nostra repubblica non esiste questa legge; ma vi sono generatori pubblici più utili a questa funzione: non vi ha dunque adulterio, come non vi ha prole adulterina, né unione illegale. Così tra i monaci non è un furto ove tutte le cose sono comuni, se alcuno mangia del pane. Poiché l'adulterio non consiste nella libidine, altrimenti il marito che usa della moglie per piacere sarebbe adultero, ma da ciò che si usa di donna non sua; ma la legge ora la fa sua, e non farebbe torto alla repubblica se non usandone contro la regola: come il monaco ruba dei beni del monastero, quando usurpa le cose comuni senza permesso. Ma, si dirà, S. Tommaso insegna pure che tutti i precetti del Decalogo sono precetti naturali. Si risponde, posta la divisione: poiché il furto non esiste se non stabilita la divisione dei beni. Altri dottori poi sostengono non tutti quei precetti essere di diritto naturale. Nella nostra repubblica poi non vi ha divisione di proprietà, ma solo d'uso, e a tempo per mantener l'ingegno e la forza dei cittadini. Non si conosce poi che la fornicazione sia peccato dalla sola natura delle cose, né nella repubblica del Sole vi ha fornicazione, essendovi comunanza. Le altre turpitudini, la gelosia e le contese, qui non possono aver luogo ove si regolano le cose secondo una legge e una disciplina a tutti gradevole: né ciò che è proprio delle bestie e di certi eretici qui non avviene; vedi il testo.

    Alla quinta obbiezione. Se fosse di diritto naturale l'avere una sol donna. Dio stesso non potrebbe dispensarci, secondo S. Tommaso. Ma Giacobbe prese due sorelle, e Davide cinque mogli, e Salomone 700, e quasi tutti i patriarchi ebbero più mogli, né si vede in ciò alcuna dispensa, quantunque comunemente si creda; egli è chiaro che la pluralità delle donne non è contro natura. E tutti gli animali, tranne forse la tortora e il colombo, che si unisce alla sola sorella, si congiungono con più femmine. E in questa repubblica, che si governa colle leggi naturali, non colle rivelate, ciò non poteva essere conosciuto. Anzi la natura insegna a chi non genera con una, di unirsi ad un'altra: e ciò anche Sara chiese ad Abramo, come cosa naturale, se non vi sia rivelazione contraria, e Lia e Rachele diedero al marito le proprie ancelle. E come questi Solari potrebbero sapere essere ciò contro natura quando né gli uomini né gli animali possono ciò discoprire? Inoltre i nostri cittadini non ne hanno né una né molte, ma nel tempo prescritto alla generazione ciascuno si avvicina a quella che la legge gli destina pel bene della repubblica, né generano per loro ma per la repubblica, anzi nemmen noi poiché il padre tra di noi non ha tanto potere sul figlio quanto la repubblica; poiché la parte è pel tutto e non il tutto per la parte. Se dunque il tutto ha cura della totalità nella repubblica solare, né la rimette ai privati, esso opera convenientemente. Il marito unendosi per libidine alla moglie, quando gli pare, produce una prole imbecille e degenere. Noi abbiamo cura di avere un'ottima generazione nei nostri cavalli, non per la nostra specie. Anche per Aristotile è un miscuglio contro natura se chi è d'animo servile cerca di congiungersi a donne generose e come gli pare ad esse si unisce. E S. Grisostomo, nel libro del sacerdozio, figuratamente riprova il vescovo ignorante che si unisce alla Chiesa generosa - Il Signore disse: erunt duo in carne una; ciò è vero, e così avviene pure nella nostra repubblica, poiché Iddio non insegnò con ciò che nessuno non debba unirsi se non ad una; altrimenti né Giacobbe avrebbe preso simultaneamente due mogli, né morta una sarebbe lecito prenderne un'altra. Dei due si fa dunque una carne, perché dal miscuglio dei due semi ne nasca una prole: e Sant'Ambrogio dice con S. Paolo: non avrei conosciuto questo peccato se la legge non lo ordinasse.

    Alla sesta obbiezione. L'eresia dei Nicolaiti stava in ciò che ammettevano esser lecito ad ognuno di unirsi come gli piacesse ad ognuna, e questo è contrario al diritto naturale e impedisce la generazione, come si è già detto; ma nella repubblica solare l'unione avviene sotto le regole della filosofia e dell'astrologia, e sì ordinatamente che la generazione riesca migliore e più numerosa; essa è dunque conforme alla natura, e quindi non è eresia se non dopo condannata dalla Chiesa. Ortensio ossia Catone, uomo sapientissimo e dottissimo, concedette in prestito la propria moglie a Bruto per avere prole da lei, come se quel rigido stoico volesse con ciò insegnare che ciò si faceva secondo l'ordine naturale. Come dunque gli abitanti solari guidati dai puri lumi naturali possono sapere che, tranne la nostra forma di matrimonio, tutte le altre siano peccato, mentre gli stessi Ebrei e i Romani ammisero il divorzio, e i filosofi accordarono la permuta; e Socrate e Platone ciò insegnarono? Aristotile non rimprovera loro di mancare al diritto naturale, ma perché non gli pare ciò utile; anzi narra che alcune nazioni vissero in tal modo. lo poi concedo questa essere ora un'eresia nella Chiesa cristiana, ma che colla sola guida della natura non si può conoscere che sia male quando non si faccia in modo bestiale o a quello dei Nicolaiti. S. Tommaso afferma essere il matrimonio contro natura quando non favorisca la prole e la società, ma nella nostra repubblica l'unione è anzi sommamente favorevole a tutti due.
    Gli argomenti addotti da Aristotile contro la comunanza: che essa è superflua, come se alcuno volesse far versi di un sol piede, e tirar l'armonia da una sol corda; sono puerili e contrari alla carità e alla repubblica dei monaci e degli apostoli, che allora converrebbe condannare, perché avevano un sol cuore e una sol anima e non dicevano alcuna cosa esser propria ma tutte le cose aveano tra loro comuni.
    Poiché questa unità non distrugge la pluralità, ma la fortifica per l'unione, non già di un sol uomo, ma di tutti gli stati e condizioni; ciò che non ottiene Aristotile nella sua repubblica, e non già da una sol corda ma da più tiriamo l'armonia. Aristotile non stabilisce che la discordia, componendo la sua repubblica di due contrari; noi da più abbiamo l'unione e come un carme, poiché tutte le cose concordano insieme: Aristotile non compone il suo carme che di due piedi contrari, e discordi, come si è mostrato nell'esame della sua repubblica. La nostra poi è del tutto apostolica, se stabilisce la comunanza non pel piacere, ma per l'ossequio come si vede nel nostro dialogo.

    FINE DELLE QUESTIONI
    SULLA CITTA DEL SOLE

  6. #16
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    Predefinito tratto da LA NAZIONE 7 agosto 2002

    CARRARA

    Lo studio sulla politica e sulla scienza

    sarà il tema dominante degli incontri culturali 2002 curati da Giammarco Puntelli e organizzati dall'Accademia della Torre (ad ingresso libero). A questi si aggiungerà, in stretta collaborazione con il Cenacolo Artistico Culturale Buttini,

    una giornata di studio sull'arte e sulla narrativa

    I primi due appuntamenti vedono protagonista il pensiero politico con autori della casa editrice Laterza. Si svolgerà venerdì alle 21, nel giardino della biblioteca di Marina, l'incontro

    'Repubblicanesimo: idee e riflessioni'

    con lo studioso di politica Maurizio Viroli. Docente di Teoria Politica a Princeton, lavora fra gli Stati Uniti e l'Italia. E' autore di numerose pubblicazioni fra le quali 'Per amore della patria', 'Repubblicanesimo' e il dialogo sulla Repubblica con Norberto Bobbio.
    Nell'incontro spiegherà non solo il suo pensiero, ma anche un ambizioso progetto: da consulente per i programmi culturali del Quirinale, parteciperà ad un'iniziativa che prevede la creazione di un museo permanente a Roma di ampio respiro, per il 2011, in occasione dei 150 anni dall'unità d'Italia. Il 'suo' museo ideale si ispira a quello dell'Olocausto a Washington, ricco di testimonianze.

    Il secondo incontro, in programma domenica 25 agosto alle 21 nel giardino della biblioteca, sarà con l'editorialista de 'Il Giornale' e collaboratore Rai Marcello Veneziani. Parteciperà all'incontro Lanmarco Laquidara e sarà l'occasione per parlare della recente pubblicazione di Veneziani 'La cultura della Destra'. Al termine degli incontri sarà offerto un buffet.

    Il programma 2002 prevede la giornata di studio con Stefano Zecchi, docente di Estetica, opinionista di quotidiani e riviste e autore di saggi e opere di narrativa pubblicate da Mondadori. Questo appuntamento, in collaborazione con il Cenacolo Artistico Culturale Buttini, si svolgerà nell'aula magna dell'Accademia di Belle Arti, il 6 settembre alle 18. Stefano Zecchi parlerà di arte e di narrativa. Al termine dell'incontro riceverà la medaglia in argento 'Terra Apuana' del Cenacolo Buttini. Riceverà anche la tessera del Cenacolo.

    L'attività 2002 dell'Accademia della Torre terminerà il 14 settembre alle 18 in Accademia di Belle Arti con la conferenza di Antonino Zichichi, presidente della World Federation of Scientists, sul tema 'Galileo Galilei'. Al termine, sarà consegnata la Torre d'Argento- Premio Nazionale Culturale Torre di Castruccio allo scienziato per i suoi studi. «Con questi incontri completiamo una stagione culturale organizzata dall'Accademia della Torre a Carrara, iniziata –ha detto il presidente Giuseppe Puntelli- con un Premio Culturale che ha portato in città personalità come Zavoli, De Crescenzo, Allegri, Sgarbi, Cofrancesco... ».

  7. #17
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    Patriottismo cercasi
    Perché manca «uno schietto affetto per le istituzioni repubblicane»? Il tema è storico, ma risponde il politologo.

    Le parole della storia spesso acquisiscono significati diversi in funzione delle intenzioni politiche di chi le usa. Patria e nazione portano su di sé, da quando l’Italia è qualcosa di più che un’espressione geografica, tutto il peso di questa sindrome del senso. Perché la ragione fondamentale del discorso storico sta tutta nella possibilità di raccontare le cose così come sono avvenute, non come si vorrebbe che fossero state. Dal Risorgimento alla Resistenza, da Caporetto al ’48, dalla «morte della patria» alla «nascita della repubblica», l’Italia di oggi si trova a fare i conti con un passato a due facce. Non esiste un’unica storia su cui formulare giudizi politici, opzioni etiche, convinzioni culturali. Gian Enrico Rusconi (foto) pensa di ritrovare il bandolo di un discorso perduto intorno ai concetti di patria e nazione, guardando indietro da Mazzini a Machiavelli, riscoprendo una categoria nobile del nostro passato: il repubblicanesimo.
    «Abbiamo una repubblica ma non abbiamo una cultura repubblicana che sappia ispirare uno schietto affetto per le istituzioni democratiche» è l’incipit a tesi, la trama essenziale su cui Rusconi tesse il suo ragionamento: «La riproposta del repubblicanesimo» spiega «non si muove semplicemente sul piano dell’etica politica ma presuppone una vera e propria teoria della politica». Lo scopo è quello di mettere in relazione due entità storicamente separate, come nazione e democrazia, intrecciate invece nel «vissuto collettivo» di oggi. Perché ciò accada, tuttavia, serve qualcosa in cui l’intera comunità dei cittadini si identifichi anche attraverso le differenze politiche e le contraddizioni culturali: «Riconoscersi in una storia comune è il presupposto per sentirsi una nazione civile».
    Già, la storia. Rusconi la prende di petto quando si trova a dipanare la matassa della «morte della patria», a indagare il groviglio della guerra civile ’43-45, a ricostruire quel processo di legittimazione democratica che portò alla nascita della Costituzione antifascista, con una puntigliosa disamina degli autori che l’hanno preceduto, da Renzo De Felice a Ernesto Galli della Loggia. Va detto però che Rusconi più che da storico ragiona come politologo, preoccupato più del dover essere che di ciò che è stato.
    Si può perciò avanzare la modesta proposta di leggere insieme a Rusconi un altro libro appena uscito, La grande Italia di Emilio Gentile (Mondadori), che ripercorre il farsi e il disfarsi del mito patriottico lungo i primi cent’anni di unità nazionale, senza essere né contro né a favore.

    Patria e repubblica di Gian Enrico Rusconi, il Mulino, 94 pagine, 10 mila lire. **

    --------------------------
    tratto da
    http://www.lucianodecrescenzo.it/pan..._797_0_nf.html

  8. #18
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    Il concetto di libertà nella tradizione repubblicana:

    una rassegna concettuale

    Giovanni Giorgini
    giorgini@spbo.unibo.it
    Università di Bologna, Dip. Politica, Istituzioni, Storia
    -----------------------------------------------------------------------------------
    "Libertà va cercando, ch'è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta": con queste parole Virgilio, nel I canto del Purgatorio di Dante, cerca di toccare la corda più sensibile del cuore di Catone l'Uticense, così da rendergli gradita la visita di un uomo in carne e ossa proveniente dall'abisso infernale. Sensibile era certamente Catone a quel valore che reputò più alto della vita stessa, allorché ritenne di non dover sopravvivere alla fine delle libertà repubblicane e pose termine ai suoi giorni. L'icastica formulazione dantesca ci consente di cogliere il punto teoreticamente più importante nella definizione del concetto di libertà repubblicana: si tratta di una libertà di partecipare alle decisioni della comunità politica, di essere partecipi al processo di discussione e deliberazione nel quale vengono prese decisioni che riguardano tutto l'insieme dei cittadini; non si tratta mai soltanto di una libertà dalla politica, intesa come fuga dalla dimensione pubblica e rifugio nel privato, esenti da occupazioni e preoccupazioni. Allorché a Catone fu negata la libertà come partecipazione all'autogoverno di una comunità politica autonoma, egli ripiegò sull'unica libertà rimasta al saggio stoico: l'uscita volontaria da questa vita. Questa devozione alla libertà politica consente a un pagano, per di più morto suicida, di avere accesso alla vita eterna: solamente il ricorso alla poesia permette di cogliere la straordinaria importanza che il termine "libertà" ha avuto nella storia e nel pensiero politico dell'Occidente, e naturalmente nel pensiero repubblicano.

    "Libertà" è, infatti, un vocabolo antico quanto "politica". Occorre notare, però, che i due termini non sono coestensivi, perché se è possibile una libertà dalla politica, non può esservi politica senza libertà. Non a caso l'aggettivo "libero" è assai più antico del sostantivo "libertà": il primo, infatti, è attestato già in Omero per individuare una condizione contrapposta a quella servile (Ettore preconizza ad Andromaca che gli Achei la priveranno del "libero giorno": Iliade VI,455; cfr. XX,193) e rimanda dunque a una condizione sociale e giuridica; il secondo è invece un termine interamente politico. Originariamente "libertà" è, infatti, un "termine di battaglia", che si sostanzia di contenuto allorché i Greci "inventano" la politica (ossia creano uno spazio comune, nel quale si attua la mediazione attraverso il dialogo e senza ricorso alla violenza e dove vengono prese le decisioni concernenti la comunità politica), dopo aver combattuto il nemico interno – il tiranno – e quello esterno – l'impero persiano –. Da questa duplice vittoria, conseguente al consapevole rifiuto di sottomettersi a un'autorità superiore, emerge il valore politico della libertà: liberati dai tiranni, i Greci sono diventati più potenti, così da poter trionfare su di un esercito assai superiore ma composto di schiavi (cfr. Erodoto V, 66; 78; 91). La vittoria degli Elleni sul Medo è la vittoria della libertà sulla schiavitù; la libertà, intesa come uguaglianza di potere politico, è un fattore di potenza: è questa l'interpretazione di Erodoto, che veicola una brillante operazione culturale della propaganda ateniese, che trasformò in lotta per la libertà un normale, mancato evento di sopraffazione. In quest'ottica la libertà è l'opposto della servitù (questa opposizione è peraltro comune a tutti i popoli indo-europei, ma si sostanzia di contenuto in ogni singola entità politica), ma in un contesto politico, non personale, sociale; la servitù che si vuole fuggire è una servitù nella dimensione pubblica, così come la libertà che si vuole conquistare, o difendere, è la libertà della comunità politica, non del singolo. Osservata dall'interno, la libertà (eleutheria) esiste dove vi sono cittadini uguali che detengono il potere, che discutono delle cose pubbliche, comuni, su di un piano di parità; vista dall'esterno, una comunità politica è libera allorché ha leggi proprie (autonomia) e sceglie da sé i propri amici e nemici, stringendo alleanze o muovendo guerra: questa è l'"ideologia della città" elaborata ad Atene nel V secolo e riflessa nelle opere di storici, filosofi, tragediografi, oltre che vissuta nell'esperienza quotidiana dei cittadini, naturalmente. Il tiranno e il Gran Re, d'altro canto, sono gli unici liberi nelle loro entità politiche, perché governano come il padrone della casa (despotes) su di una massa di schiavi. La libertà diviene così il valore che riassume l'essere politico degli Ateniesi, se non proprio di tutti gli Elleni, una bandiera in nome della quale si può morire e si può chiedere ad altri uomini di sacrificare la propria vita. In tal senso viene celebrata nella tragedia, questa meravigliosa creazione poetica della grecità politica del V secolo; così come nelle opere dei filosofi Platone e Aristotele la condanna della schiavitù della tirannide e la contrapposizione con la condizione servile dei Persiani costituiscono il presupposto per l'edificazione della città perfetta. La libertà può quindi diventare uno slogan: nella guerra del Peloponneso Atene sostiene di difendere la libertà dei Greci contro i Persiani con il suo impero marittimo; Sparta, d'altro canto, dopo aver bollato come tirannide tale impero, fa di "liberare i Greci" il proprio motto per sfruttare il malcontento e acquisire alleanze contro la potenza rivale (cfr. Tucidide I,139; II,8; IV,108 e passim). Anzi, la provocatoria e propagandistica richiesta di liberare i Greci – "la pace ci sarebbe se voi lasciaste liberi i Greci", Tucidide I, 139 – è contenuta nell'ultimatum che gli Spartani danno agli Ateniesi alla vigilia della guerra e costituisce la precondizione per una pace duratura tra le due città. La libertà della città, in sintesi, presenta due aspetti: da un lato si esemplifica nella capacita di autodeterminarsi dandosi leggi proprie e conducendo una propria politica estera – autonomia; osservata dall'interno, essa si identifica con l'isonomia, l'uguale possibilita di partecipazione al processo decisionale tramite l'intervento ai lavori dell'Assemblea, il sedere come giudice nei tribunali e la possibilita di essere sorteggiato per ricoprire una carica.

    La liberta è, quindi, una dynamis, una potenza e una possibilità, ed è tutta inserita nella dimensione politica. Quanto detto è esemplificato in due celebri discorsi che Tucidide fa pronunciare a Pericle, nei quali si afferma che gli Ateniesi, unici, considerano "non ozioso ma inutile" chi, non partecipando attivamente agli affari pubblici, è libero dalla politica (apragmon) (II,40), e si sostine la tesi secondo cui la potenza che deriva alla città dall'impero costituisce la difesa della libertà dei cittadini (II,63): essere liberi, in politica estera, significa poter fare ciò che si vuole, e quindi dominare i più deboli, mentre in politica interna significa partecipare alla "cosa pubblica", ossia agli affari della città. La libertà viene così a coincidere con una forma di governo, la democrazia, nella quale vige una legge fissa e più ampio è l'accesso all'Assemblea e alle cariche politiche, dove è da notare l'appropriazione da parte del demos dell'ideologia aristocratica, secondo la quale è l'eguaglianza nel detenere il potere politico che caratterizza, che sostanzia di significato, la libertà.

    È noto che la libertà non ha un ruolo fondamentale nella visione politica di Platone, per il quale tale valore è troppo compromesso con gli eccessi della democrazia di fine V secolo: l'eccessiva libertà , divenuta licenza, si tramuta nel suo opposto, la tirannide (Repubblica 562d). La comunità politica ha invece come fine creare uomini virtuosi che, nelle loro diversità, vivano in armonia la propria vicenda terrena, in una società ordinata e dunque giusta, certi di ottenere un premio alla propria virtù nell'aldilà. Non bisogna tuttavia pensare che Platone fosse completamente sordo alle esigenze di libertà; al contrario, egli attribuisce, per esempio, la decadenza dell'impero persiano al fatto che i re "tolsero troppo la libertà al popolo e instaurarono un dispotismo troppo duro e così distrussero lo spirito di amicizia e di unità nella comunità politica" (Leggi 697c-d): la libertà deve bilanciare il potere in un equilibrio armonico, una conclusione che sarà ripresa da Cicerone. Aristotele riflette notoriamente il pregiudizio conseguente alle guerre persiane per cui la libertà contraddistingue il popolo ellenico e i popoli orientali sarebbero schiavi per natura, adatti dunque a vivere sotto un regime dispotico. Nella sua visione lo schiavo è "un essere che per natura non appartiene a se stesso ma a un altro, pur essendo un uomo" (Politica I 4, 1254a15), adatto quindi solo alla fatica fisica. Non gli sfugge però che molti sono divenuti schiavi in seguito a guerre e sono quindi tali solamente "per legge"; la loro condizione, tuttavia, non differisce molto da quella degli schiavi per natura perché, non potendo condurre la vita del cittadino libero, è loro preclusa una vita propriamente umana. Aristotele ci ricorda così come l'essere liberi sia anche una condizione giuridica, propria di chi gode pienamente dei diritti civili, presupposto per condurre una vita politica, l'unica adatta all'uomo. Nella sua visione la libertà costituisce il primo requisito della comunità politica, l'unica forma di società nella quale l'uomo può realizzare le sue potenzialità tipicamente umane. Egli afferma innanzitutto che l'essere "liberi e uguali" è il presupposto per costituire una comunità politica (Etica Nicomachea V 10, 1134a27; cfr. Pol. III 8, 1280a5; 24; 1281a6; IV 9, 1294a20; IV 12, 1296b18). Nella sua classificazione delle forme di governo, la libertà rappresenta poi il principio costitutivo e il fine della democrazia (E.N. V 6, 1131a28; Pol. Iv 4, 1291b34; IV 8, 1294a11; V 9, 1310a30; VI 2, 1317a40ss; 1318a10), così come la virtù lo è dell'aristocrazia e la ricchezza dell'oligarchia. Polibio, che vive nella Roma repubblicana del II secolo a.C., vede nella libertà il presupposto di ogni potenza politica e colloca l'inizio dell'ascesa dei Romani nel momento in cui riconquistarono insperatamente la propria libertà e indipendenza dopo l'invasione dei Galli (I,6). La sua opera storica, che egli definisce "storia pragmatica" (I,2; cfr. I,35 e IX,1-2) in quanto narrazione di eventi dotata di uno scopo pratico, atta ad ammaestrare gli uomini accorti e in particolare gli uomini politici, si pone deliberatamente come fine spiegare lo sviluppo della potenza romana, giunta a dominare quasi tutto l'universo abitato. Egli ritiene che la bontà della costituzione romana, una forma di governo mista in quanto "miscela" le caratteristiche positive della monarchia nella figura dei due consoli, dell'aristocrazia nel Senato, e della democrazia nell'autorità del popolo (VI,11), sia la ragione ultima della potenza dello Stato romano: questi tre poteri si controbilanciano, a volte danneggiandosi a volte collaborando fra loro, e garantiscono così la libertà dei cittadini e la potenza dello Stato. Questa analisi delle ragioni della grandezza di Roma sarà poi ripresa da Machiavelli, il quale vedrà nel contrasto tra aristocrazia e plebe il fondamento della libertà e della potenza romana. Riprendendo la classica suddivisione platonico-aristotelica delle forme di governo, a cui aggiunge l'idea di una rotazione secondo la quale esse si trasformano, decadono e ritornano al tipo originario, Polibio individua sei regimi politici "semplici" e considera la libertà il principio costitutivo che individua la democrazia. Egli ritiene che la democrazia sia un buon regime che si instaura quando il popolo, stanco delle prepotenze e dell'avidità di pochi governanti, rovescia l'oligarchia e assume su di sé la cura degli affari pubblici. Questa forma di governo stima più di ogni altra cosa "l'uguaglianza di diritti e la libertà di parola" (VI,9): Polibio riprende qui un tema tipicamente ateniese, risalente a Erodoto, per cui l'uguaglianza di parola (isegoria, parrhesia) è sinonimo di uguaglianza di diritti (isonomia) e di potere (isokratia) e dunque di libertà. È appena il caso di ricordare l'enorme influsso che le Vite parallele di Plutarco hanno esercitato sui grandi personaggi di tutte le epoche. Mosso da un intento più educativo che storico-biografico, egli ha saputo infondere vita ai propri personaggi miscelando con perizia elemento storico ed elemento etico e ha saputo dotarli di un "armamentario" di virtù e valori politici che hanno conferito loro una grandezza ineguagliabile, rendendoli paradigmatici, in ogni epoca, degli ideali repubblicani. Vissuto nel I secolo d.C., Plutarco identifica la libertà con il regime politico della democrazia, nella quale tutti godono di eguali diritti. Nella sua visione, il primo creatore della democrazia fu Teseo, il quale abolì la monarchia e creò la città di Atene (Teseo 24-25). Più in generale, egli ritiene che, dopo le guerre combattute contro il Medo in difesa di quei valori, libertà e uguaglianza siano i perni della cultura ellenica (Temistocle 27).

    [CONTINUA]

  9. #19
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    Questa insistenza sulla riflessione politica greca è stata necessaria perché i Greci, ma sarebbe meglio dire gli Ateniesi, ci hanno trasmesso un modello, idealizzato e ideologico ad un tempo, che ha esercitato un influsso potentissimo, meglio ha plasmato la visione della libertà nell'Occidente. Anche nella cultura romana il significato del termine libertas si definì, per contrarium, a partire dalle lotte contro la monarchia e il dominio del singolo rimase sempre l'antitesi negativa nella concettualizzazione della libertà: non dimentichiamo che l'uccisione di Cesare fu perpetrata in difesa della libertà, così come quella precedente di Tiberio Gracco. Caratteristica della libertà romana è quella di risentire dell'influsso di concezioni filosofiche greche, ma di essere concettualizzata senza essere disgiunta dalle situazioni storiche da cui aveva avuto origine. In questa unione di teoria e prassi si possono distinguere diverse sfere di libertà: la libertà è innanzitutto l'insieme dei diritti e dei privilegi, civili e politici, del cittadino romano; vi è quindi una libertà giuridica, che contraddistingue il liber dal servus, il quale è equiparato a una cosa; sempre connessa alla sfera del diritto è la nozione di libertà come protezione dei diritti dell'individuo contro la coercizione dei magistrati; vi è infine la visione "popolare" della libertà come difesa dai soprusi della nobiltà, che ha come contraltare la visione "ottimate" che vede il principale problema della repubblica nel grado di libertà che occorre concedere al popolo. Si noterà che in tutti questi casi la libertà trova attuazione mediante le istituzioni giuridiche e politiche, e dunque mediante la legge, sua vera garante: la libertà si identifica con la respublica, le sue leggi e le sue istituzioni, e ciò che da esse discende: i costumi e gli uomini che da essi sono plasmati. Questo emerge con tutta chiarezza, più che da tante professioni pubbliche, da una lettera privata di Cicerone (Ad Quintum fratrem III,5,4), dove si afferma che "non vi è più repubblica, non vi sono più tribunali", dove è evidente, nella formulazione concisa, l'identificazione dei due termini; ad essa è avvicinabile l'affermazione del poeta Ennio, "Moribus antiquis res stat Romana virisque" ("è sui costumi e sugli uomini antichi che poggia la grandezza di Roma": citato da Cicerone, De Republica V,1). Cicerone rappresenta, senza esagerazioni, la più insigne voce latina esaltatrice della libertà: la sua straordinaria capacità oratoria gli fornì gli strumenti per ammantare di uno splendido drappeggio di parole quell'ideale che animò tutta la sua azione politica e lo condusse alla morte, per aver difeso la libertà repubblicana contro Antonio: Leopardi definì le orazioni Filippiche, che procurarono a Cicerone l'odio di Antonio e la conseguente morte, "l'ultimo monumento della libertà antica". Nella poliedrica attività di Cicerone la libertà ha un ruolo centrale: l'amore per la libertà, e il congiunto odio per la tirannide, è l'ideale politico che lo anima, anche se egli concepisce la libertà secondo gli schemi ormai vetusti del partito ottimate; l'amore per la libertà lo porta però a trascendere i limiti storici e politici della sua persona e gli fanno celebrare la libertà universale come forza motrice della vita e della storia. Nella sua visione esistono diverse sfere di libertà, corrispondenti agli ambiti in cui si estrinseca la vita dell'uomo. Nell'ambito etico, egli elogia la libertà dalle passioni, "per la quale gli uomini magnanimi devono lottare in ogni modo" (De officiis I,20); questa libertà, che consente all'uomo di elevarsi al di sopra delle bassezze e degli appetiti che lo accomunano alle bestie, deve essere coltivata dall'uomo politico, perché solo essa può procurargli la gloria. Nella sua visione la pratica ha il primato sulla teoria e la virtù risiede nell'azione: si passa così all'ambito politico, dove la libertà, che risiede nel popolo, è uno degli elementi costitutivi della respublica, unitamente alla potestas nei consoli e all'auctoritas nel Senato. Così egli definisce il tribunato della plebe "guardiano e difensore della libertà" (De lege agraria II,15) e difende come "garante della libertà" (De oratore II,199) l'istituto della provocatio, che consente al cittadino di appellarsi al popolo. Nella sua opera politica più importante, il De Republica appunto, Cicerone muove dalle teorie politiche greche, in particolare di Platone e Aristotele, alle quali affianca però l'esperienza politica romana, che giudica superiore, perché tratta dalla effettiva realtà politica. In quest'opera fornisce la famosa definizione di respublica come res populi, ma aggiunge che "non si può definire però popolo ogni moltitudine di uomini riunitasi in un modo qualsiasi, bensì una società organizzata che ha per fondamento l'osservanza del diritto e la comunanza di interessi" (I,25). Riprendendo l'argomentazione polibiana, egli ritiene che nè regno, nè aristocrazia nè democrazia possano essere ottimi regimi politici, in quanto proni a degenerare bruscamente e a tramutarsi nei corrispettivi regimi corrotti rappresentati dalla tirannide, dall'oligarchia e dalla demagogia (I,28). Solo una forma di governo mista, come quella romana, che risulti "dalla fusione e da un saggio temperamento" (I,29; cfr. I,35 e I,45; II, 39) delle tre forme buone, può assicurare stabilità e buon governo. E – Cicerone aggiunge – "solo in quello Stato in cui il popolo ha il sommo potere sussiste la vera libertà, di cui non v'è bene più prezioso, e che neppure può chiamarsi libertà, se non comporta una assoluta uguaglianza di diritti" (I,31; cfr. De officiis I,25, dove si dice che nei popoli liberi regna l'eguaglianza del diritto): la vera libertà deve dunque essere aequa e consiste nella populi potestas summa. Da questa condizione di uguaglianza tra tutti i cittadini discende l'autogoverno della repubblica: "un popolo libero sceglierà da sé gli uomini cui affidarsi" (I,34). La realtà della costituzione romana viene dunque messa a confronto con le costruzioni ideali dei filosofi greci e reputata superiore. A tal fine, nel II libro del De Republica Cicerone traccia un affresco storico sull'evoluzione della costituzione romana per mostrare come essa sia giunta alla perfezione grazie a una tendenza naturale della respublica non ostacolata dall'avversa fortuna. La monarchia dei primi re, di per sé non una cattiva forma di governo, fu sostituita dalla repubblica per l'odio attiratosi da Tarquinio; qui Cicerone commenta che la monarchia è incline a degenerare in tirannide e la libertà non consiste nell'avere un buon padrone, ma nel non averne affatto (II,23).

    L'influsso delle storie di Sallustio, e segnatamente della sua esposizione delle cause della grandezza e del declino della repubblica romana, sul pensiero repubblicano è tanto evidente quanto poco riconosciuto. Nella sua opera De Catilinae coniuratione Sallustio, nato da famiglia plebea e appartenente alla fazione dei populares, dipinge Catilina come il tipico rappresentante della nobiltà degenere che complotta per rovesciare il mos maiorum e la repubblica. Sebbene avversi gli aristocratici, egli non condivide gli infiammati discorsi che i suoi personaggi pronunciano contro i nobili, in quanto mirano a sovvertire quell'ordine repubblicano tradizionale che egli reputa il valore più alto. In essi la libertà appare uno dei valori sacri e costitutivi della repubblica, ma si identifica con la libertà della plebe dall'oppressione dei tiranni e, in particolare, degli ottimati: "pro patria, pro libertate, pro vita certamus", afferma Catilina (58,7), sintetizzando con retorica efficacia i tre valori supremi cui si ispira la sua congiura. Allo stesso modo Manlio dice di non cercare il potere o le ricchezze ma "libertatem, quam nemo bonus nisi cum anima simul amittit" (33,1; Manlio ripete la stessa frase al re Marcio a 6,7); così M. Porcio Catone nel supremo pericolo afferma che "sono in gioco la libertà e la nostra stessa anima" (51,43). Nelle Historiae sallustiane, infine, troviamo spesso il nesso respublica e libertas populi Romani così come la contrapposizione comune tra la libertà garantita dalla repubblica e la servitus sotto un re o un tiranno. Sallustio riprende anche l'interpretazione classica della libertà come fattore di potenza politica: "fu soltanto allorché la città di Roma riuscì a liberarsi dai re che riuscì, in pochissimo tempo, a raggiungere una tale grandezza" (7,3). Tito Livio narra la storia di Roma dalla fondazione della città – da cui il titolo Ab urbe condita – fino alla sua epoca, con un sentimento di devozione per la missione che la virtus romana era chiamata a compiere e con un sentimento politico repubblicano. All'inizio della sua opera egli afferma esplicitamente che il suo proposito è mostrare quale tipo di vita, quali costumi e quali uomini abbiano permesso la nascita e la crescita dell'impero (Praef. 9); non disgiunto dalla narrazione storica è, dunque, un costante amor di patria che anzi informa l'intera opera, dotandola di un fine morale. Nella sua narrazione delle origini di Roma ricorre spesso l'usuale opposizione tra libertà e regno, soprattutto riferita a Tarquinio (II,2): il regno, tollerabile fin quando non si è conosciuta la dolcezza della libertà ("libertatis dulcedine nondum experta": I,17; cfr. II,9), è incline a degenerare in tirannide; e la natura del tiranno è tale che "o serve umilmente o domina superbamente", mentre la libertà consiste in una via di mezzo (XXIV,25). In questo contesto Livio elogia anche il tirannicidio, che consente al popolo di riacquistare la libertà. In una fase successiva egli mostra come sia la libertà della plebe che deve essere difesa di fronte ai nobili. Egli apre quindi la sua storia di Roma repubblicana con la celebre asserzione "Narrerò ora la storia politica e militare di un popolo romano libero, sottoposto a magistrati eletti annualmente e a leggi la cui autorità è superiore a quella degli uomini" (II,1,1). Tacito, lo storico di Roma imperiale, ha nostalgia della libertà repubblicana, dei suoi uomini e dei suoi costumi, che non può fare a meno di confrontare con le bassezze e i vizi dell'impero. Lo spirito di libertà è per lui il sentimento umano più fiero e più alto ad un tempo, che unisce gli uomini al di là dei confini geografici. Così, nell'elogio di Agricola traspare la sua ammirazione per i barbari suoi avversari, i quali combattono fieramente per la libertà della propria terra, e in particolare per il capo dei Britanni Calgaco, che definisce i suoi uomini "gli ultimi della terra e della libertà" (XXX,4). La medesima ammirazione è evidente nella sua descrizione dell'amore per la libertà dei Germani, che nella Germania viene contrapposto ai vizi dei declinanti Romani. Tipico ricorre in lui lo schema di contrapposizione tra la libertà repubblicana, della vetus aetas, e la schiavitù della sua epoca (Agricola II,3; Historiae I,1 e passim; Annales, passim). Egli inserisce la biografia di Agricola nel contesto dell'epoca di Domiziano, nella quale, egli afferma, "come l'età antica vide il culmine della libertà, così noi vedemmo quello della schiavitù" (II,3). Pronunciando un elogio di Nerva egli dice che questi riuscì a far coesistere "due cose un tempo inconciliabili, il principato e la libertà" (Agricola III,1). Asserzioni analoghe ricorrono nelle Historiae, dove si dice che Mario e Silla "trasformarono in dominio la libertà vinta dalle armi" (II,38). L'usuale concezione romana per cui la libertà repubblicana ebbe inizio con la cacciata dei re compare nelle battute iniziali degli Annales: "La città di Roma era all'origine governata da re; L. Bruto introdusse la libertà e il consolato" (I,1; cfr. III,27 dove si ripete che la libertà è legata all'espulsione di Tarquinio). Più in generale, si può notare come, attraverso la descrizione drammatica del suicidio di personaggi quali Seneca e Lucano in seguito al fallimento della congiura dei Pisoni, Tacito voglia evidenziare come, una volta spenta la libertà politica, all'individuo magnanimo rimanga solamente quella libertà privata rappresentata dall'uscita volontaria dalla vita.

    Nel pensiero politico tardo-medievale risplende l'individuazione, ricca di suggestioni ciceroniane, operata da Giovanni da Viterbo nel suo Liber de regimine civitatum, composto attorno al 1240, della civitas stessa nelle nozioni di libertà dei cittadini o immunità degli abitanti.

    Nel Defensor pacis – un'opera di grande impatto ideologico, che vede la luce nel 1324 – Marsilio da Padova esprimeva un punto di vista sganciato dal canone ufficiale della politologia medievale, ancora compresa nella distinzione agostiniana tra una civitas terrena e una civitas coelestis: la realtà che Marsilio aveva di fronte, peraltro, non era più articolata nei due ordines che avevano governato la cristianità fino alla crisi dei poteri che si registra a partire dal XIII secolo in Europa, ma già quella dei piccoli Stati italiani, i quali saranno per duecento anni ancora i veri protagonisti della scena politica e i modelli pratici per la riflessione propriamente repubblicana sulla politica fino e oltre Machiavelli. L'attenzione di Marsilio verso il consenso dei governati, l'indicazione di forme di autogoverno da esercitarsi in piccole entità territoriali, la felicità terrena degli individui come obiettivo pratico fondamentale fanno da sfondo a una nuova definizione della libertà umana che Marsilio mette a punto nelle Quaestiones sulla metafisica e sviluppa più tardi nella sua opera fondamentale: per lui liber est, qui est gratia sui, senza che si debba necessariamente ipotizzare la collaborazione di Dio all'autorealizzazione dell'uomo, nè tantomeno si debba pensare alla libertà umana come orientata a un bene esclusivamente ultraterreno. La politica, intesa davvero come attività umana per eccellenza, surclassa la vocazione contemplativa che gli scolastici avevano attribuito alla vita umana e si realizza in una comunità di individui liberi, associatisi liberamente in vista di una tranquillità, di una "felicità civile" e di una sufficienza materiale da perseguirsi in comune; la politica così intesa è quindi per Marsilio un'ipotesi irraggiungibile per "quei cittadini che sono oppressi o caduti in schiavitù per opera di aggressori esterni" (Il difensore della pace, I,5,8, p.130).

    Questa visione decisamente più "laica" della politica contrappunta l'intera riflessione di autori decisivi del canone repubblicano quali Coluccio Salutati, Leonardo Bruni e Alamanno Rinuccini, nella cui opera si mescolano suggestioni classiche, assieme a un radicale ripensamento della lezione politica ereditata dagli antichi. Salutati, cancelliere della repubblica fiorentina dal 1375 al 1406, elabora un modello di politica in cui si intrecciano la riprovazione per il governante ingiusto e irrispettoso delle leggi e la difesa dei liberi ordini della città, dove la libertà è identificata con il "dolce freno" imposto dalle leggi a tutti i cittadini: è in particolare nel suo De Tyranno che troviamo rispecchiata un'alta coscienza della vita civile di una repubblica nella realtà concreta della vita cittadina di Firenze. Una lezione ampiamente ripresa e approfondita da Bruni, che collega l'elogio della libertà dei Fiorentini – in particolare condotto nella Laudatio Florentinae urbis- all'esigenza dell'autogoverno, nonché all'indipendenza dall'esterno. La libertà della città si preserva, egli scrive nell'Historiarum Florentini populi libri XII, allorché le leggi sono più forti dei singoli cittadini. Più attenta – anche in ragione di una sofferta vicenda biografica – al tema della libertà, è la riflessione di Alamanno Rinuccini, il quale compose nel 1479 il dialogo De libertate in cui, per bocca di Aliteo, pronuncia una lode aperta del "vivere politico et civile", che trova il suo fondamento nella giustizia e nelle buone leggi, nonché nella libertà voluta e ricercata con fortezza e determinazione contro quei tiranni che paiono invece assecondare l'accidia e la viltà dei cittadini chiusi nel cerchio angusto delle loro passioni private e disamorati del loro bene più grande, ovverossia di quegli ordini e di quei costumi che limitano e orientano una saggia e responsabile ricerca della felicità. Nella medesima vena Rinuccini sottolinea, inoltre, l'importanza della libertà di parola, che contraddistingue le libere repubbliche, mentre sotto un tiranno regna ovunque un freddo silenzio.

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    Ma è nella Vita civile di Matteo Palmieri che troviamo compendiati tutti gli elementi costitutivi del canone repubblicano, ben raccolti intorno a un'ampia concezione antropologica che si svela attraverso una suggestiva descrizione della natura umana e della sua vocazione pratica e civile, e che fa da sfondo allo studio di quella "vita civile" che costituisce la miglior forma di associazione umana che sia data sulla terra. L'analisi delle virtù, che tanta parte occupa nell'opera, prelude quindi alla trattazione dell'esistenza associata "de' civili" e questa, solo nella misura in cui è veramente libera, può provvedere alla piena realizzazione di un'esistenza intrinsecamente virtuosa: "la natura d'ogni virtù è procedere dall'animo libero" (p.107). E non vi è libertà dove vi siano discordie e divisioni, dove la vita sia soggetta all'obbedienza servile a un potere che tenga in disprezzo le leggi e l'onore della città: e in una città come in uno Stato, anche "singulare et amplissimo" come quello di Roma in età imperiale, sono le divisioni, gli scandali e le "discordie gravissime" a mettere in pericolo "la dolce libertà" dei cittadini, fondamento della "cittadinesca concordia" e del "politico vivere" (pp.136-137).

    Libertà che ricorre come tema dominante nella proposta di Girolamo Savonarola, il quale ripensa – negli anni difficili che seguono le campagne italiane di Carlo VIII e la fine di una politica italiana di Stati e di libere repubbliche – una nuova politica per Firenze, e la ripensa nella forma di una renovatio radicale, dei costumi, degli ordini, dell'idea stessa di cittadinanza, che potesse restituire una dignità perduta ai Fiorentini al di là di ogni considerazione di opportunità sulle alleanze da stringere con Stati e principi stranieri: il problema politico essenziale alla soluzione della situazione fiorentina stava allora, per il Savonarola, non nell'individuazione di opportunismi e tattiche da effettuare in un calcolo strumentale dei costi e dei benefici, ma nell'acquisizione, da parte di ognuno, di una maggiore consapevolezza religiosa, che si sarebbe dovuta tradurre in un decisivo anelito di "vera libertà", da consumare all'interno di una struttura politica che non sempre pare essere assimilata alla forma repubblicana, anche se alla perfezione della monarchia di Cristo, Savonarola contrappone la convenienza – in rispetto al temperamento libero e all'attitudine politica dei Fiorentini – del reggimento popolare.

    La geniale capacità innovativa che viene solitamente riconosciuta a Machiavelli, tanto da farne il discrimine tra pensiero politico antico e moderno, risiede nella capacità di trarre le estreme conseguenze dalle virtù civiche: per amor di patria – egli afferma – è lecito dannarsi l'anima. Per il resto egli ha fatto spesso ricorso ad argomentazioni tradizionali elaborate dagli umanisti. Nel Principe egli ha mostrato, con scandalosa coerenza, come la salus reipublicae costituisca il fine ultimo dell'azione dei governanti, l'unico fine che giustifica i mezzi impiegati (cfr. Discorsi III,41). La conservazione dello Stato rappresenta però il livello minimo, la condicio sine qua non, della politicità; la politica consente all'uomo di raggiungere fini ben più alti, quali la grandezza della comunità politica e la gloria dell'uomo politico. Questi temi sono invece esposti con agio nei Discorsi, dove si discorre effettivamente di "politica" nel senso tradizionale, classico e umanistico, del termine. Qui Machiavelli vede nei tumulti, nelle lotte tra patrizi e plebei, uno dei fondamenti della libertà della Roma repubblicana, mettendo in questione quella tradizione che, a partire da Cicerone, l'aveva ascritta alla concordia ordinum (I,2;4). Questo effetto positivo e creatore di libertà delle discordie sociali a Roma è da Machiavelli attribuito alla mancanza di corruzione nel popolo romano: la medesima discordia nella "corrottissima" Firenze a lui contemporanea aveva prodotto solamente lotta tra fazioni nobiliari e perdita di libertà e potenza per la città. Fondamentale importanza per conservare la libertà di una repubblica ha poi l'istituzione, regolata dalla legge, di meccanismi che consentano ai cittadini di denunciare arbitri subiti o violazioni della libertà, senza ricorre a mezzi extra-legali o a calunnie: "accusansi gli uomini a' magistrati, a' popoli, a' consigli; calunnionsi per le piazze e per le logge [..] e dove non è bene ordinata questa parte, seguitano sempre disordini grandi" (Discorsi I,8). La libertà, il "vivere libero", gli appare il presupposto fondamentale per raggiungere la grandezza politica: "E facil cosa è conoscere donde nasca nè popoli questa affezione del vivere libero: perché si vede per esperienza le cittadi non avere mai ampliato nè di dominio nè di ricchezza se non mentre sono state in libertà" (II,2). E il vivere libero è possibile solo in una repubblica che si auto-governa, dove gli individui hanno a cuore il bene comune e promuovono la grandezza della comunità politica, dove delle buone leggi consentono a tutti i cittadini di vivere su un piano di uguaglianza secondo i propri desideri, i nobili alla ricerca del potere, gli "ignobili" della sicurezza. Occorre notare, infatti, come Machiavelli avesse chiaramente compreso che anche nelle repubbliche il vivere libero ha nella realtà due significati: per alcuni (una ristretta minoranza) vuol dire la possibilità di accedere ai posti di comando (quasi un'anticipazione della teoria dell'élite); per la maggioranza, però, significa semplicemente attendere ai propri affari con sicurezza (I,16). È dunque necessario "costituire una guardia alla libertà" per prevenire la tirannide (I,5), che nasce sempre "da troppo desiderio del popolo d'essere libero, e da troppo desiderio dè nobili di comandare" (I,40): tale è il governo della legge, che impone la "pari equalità", che impedisce il predominio dei "gentiluomini" e induce la plebe alla moderazione (I,58), preservando così il "vivere politico e incorrotto" (I, 55).

    Machiavelli si domanda poi perché in passato gli uomini fossero più "amatori della libertà" e ne attribuisce la cagione a una scorretta interpretazione della religione cristiana, tendente a esaltare le virtù di umiltà e contemplazione, e agli "esempli rei" dei preti e della Chiesa romana (I,12): così si è "effeminato il mondo e disarmato il Cielo", mentre la religione antica "non beatificava se non uomini pieni di mondana gloria" (II,2). Machiavelli generalmente contrappone la libertà nella repubblica alla schiavitù sotto un tiranno. Questo non contraddice l'elogio del principe pronunciato nell'opera omonima, perché il principe, e segnatamente il principe nuovo, ha il compito primario di creare le condizioni minime del vivere politico. La corruzione, ossia la sistematica violazione della legalità e la presenza di individui al di sopra della legge, rappresenta l'elemento discriminante: un popolo corrotto non potrà mai vivere libero (I,16) e raggiungere la grandezza politica, perché i cittadini perseguono il proprio egoistico bene trascurando quello comune: "perché non il bene particulare ma il bene comune è quello che fa grandi le città" (II,2). Allorché la corruzione dilagò a Roma e i cittadini "divennero cattivi, [..] solo i potenti proponevano leggi, non per la comune libertà ma per la potenza loro" (I,18). Quando la materia è corrotta e la città ha "poca attitudine alla vita libera", è necessaria una mano regia o quasi regia e il ricorso a "grandissimi straordinari" (I,17-18).

    Il medesimo rammarico già avvertito nelle pagine che chiudono il Principe si avverte nel "proemio" al Dialogo del reggimento di Firenze di Francesco Guicciardini, che consegna ai Fiorentini la sua lezione che è assieme di politica e di storia in un momento di incertezza e di trasformazione, di crisi e di accorato rimpianto in un'età – quella delle origini popolari e repubblicane di Firenze – che ognuno, nel suo intimo, sapeva irrimediabilmente perduta: Guicciardini, nel Dialogo, lamenta innanzitutto la poca somiglianza dei costumi e delle leggi corrotte dalla cattività medicea con quelle di una repubblica ideale e pare confidare apertamente nel libero corso delle cose umane affinché Firenze possa un giorno ritrovare "uno governo onesto, bene ordinato, e che veramente si potessi di chiamare libero" (p.300) benché "per la autorità che hanno è Medici in Firenze, e per la potenza grandissima del Pontefice paia perduta la libertà di quella" (ibidem). Il metodo storiografico di Guicciardini segue il filo del confronto serrato tra antichi e moderni, tra l'età in cui i diversi ordini di Roma governavano in armonica collaborazione e lo stato di afflizione proprio dei tempi presenti, in cui l'uomo di lettere in pena per le comuni sorti della sua città sta appartato in febbrile attesa di una schiarita, di una viva trasformazione che potesse riguardare ancor prima gli uomini dei governi, "perché – scrive Guicciardini – come il governo cominciassi a essere amato e a venire in riputazione, e che si vedessi che el dimostrare gli uomini ingegno e amore della libertà gli facessi crescere, forse che la natura farebbe per sé medesima che gli uomini in magistrato o privati piglierebbono di questi assunti contro à cittadini perniziosi e pericolosi alla libertà" (p.459).

    Negli anni che segnano la fase aggravata della corruzione interna e della dissoluzione del potere mediceo a Firenze vengono meditate, all'interno delle riunioni degli Orti Oricellari, proposte destinate a formare il quadro della tarda riflessione politica fiorentina, che apparirà dominata da un vivo richiamo della tradizione della filosofia civile. Oltre alle voci di Antonio Brucioli e di Bartolomeo Cavalcanti è nella Republica fiorentina di Donato Giannotti che possiamo riconoscere l'appassionata ricerca di un'arte politica in cui si presenta viva l'opposizione tra una repubblica che assimila i cittadini a rotazione nelle sue cariche e una tirannia che abbruttisce e opprime i sudditi privandoli della sicurezza oltre che della libertà: e una città in cui il reggimento politico abbia consolidate tradizioni repubblicane è – scrive Giannotti – "una congregazione civile d'uomini liberi" (p.143).

    È da sottolineare come questa libertà sia comunque una libertà pubblica, comunale, quella a cui pensa Paolo Paruta nel suo trattato Della perfezzione della vita politica, per il quale "chi cerca di ben vivere, non pur ha da pensare a se medesimo ma insieme alla città" (p.149). Ovverossia al luogo per eccellenza dell'esercizio responsabile di una libertà che non sia semplicemente ritagliata per gli ozi e gli uffici privati e che si ritrova perfettamente rappresentata nella figura di Catone Uticense, il quale, "essendosi dipartito da Roma con animo di starsi nelle sue ville lontano dalla repubblica, poiché intese Metello, uomo fazioso e ardito, venire alla città per chiedere il tribunato, mutato pensiero: Non è più tempo, disse, di darsi all'ozio, lasciando crescere la potenza di costui con danno della libertà pubblicà" (p.150).

    Di una libertà di specie diversa si comincerà a dibattere in Inghilterra negli anni che preparano lo scoppio della guerra civile, quando matura, accanto a proposte diversamente ascrivibili ai partiti e alle fazioni direttamente schierate sul campo, un'alta presa di coscienza del senso del conflitto politico, nella forma della filosofia politica di Thomas Hobbes. In particolare, è nel Leviatano, la sua opera filosofica certamente più matura, che ricapitola e precisa posizioni già espresse nei precedenti Elements e De cive, che Hobbes dà un'originale definizione della libertà, ponendosi in netta alternativa rispetto a quel canone repubblicano che non mancherà di essere prontamente ripreso e rilanciato da autori ad Hobbes contemporanei, talora personalmente schierati contro di lui.

    Nel capitolo XXI del Leviatano, "Della libertà dei sudditi", si legge che la libertà è propriamente "l'assenza di opposizione": un criterio, questo, che può essere applicato "non meno alle creature irrazionali e inanimate che a quelle razionali" (p.205). Per quanto riguarda la libertà che qui conta, quella delle creature razionali, essa in ragione della generalità del principio che ne definisce la natura, si determina in relazione agli impedimenti e ai vincoli ai quali quelle creature sono soggette. Ed è solo in relazione a questi vincoli (catene artificiali chiamate leggi civili) che si può parlare di quella "libertà naturale che, sola, è propriamente chiamata libertà" (p.207): infatti, procede Hobbes, "dato che non c'è al mondo uno stato in cui siano stabilite regole sufficienti per regolare tutte le azioni e tutte le parole degli uomini (cosa che è impossibile) segue necessariamente che in tutti i generi di azioni non menzionate dalle leggi, gli uomini hanno la libertà di fare ciò che la ragione suggerirà loro come più giovevole a loro" (pp.207-208). Dunque una libertà "negativa", totalmente privata di quella creatività che caratterizza la libertà politica, "positiva", dei repubblicani: una libertà che "si trova perciò solo in quelle cose che il sovrano, nel regolare le loro azioni [scil. dei sudditi], non ha menzionato" (p.208; mio il corsivo).

    Ma se guardiamo al peso e allo spessore teorico di proposte che segnano in profondità il dibattito politico, appare essere Machiavelli il grande spartiacque delle ideologie politiche inglesi per tutti gli anni che segnano la preparazione e lo scoppio della guerra civile. Una prima significativa testimonianza di questa attenzione per un autore che, nel preciso contesto dei dibattiti che hanno luogo in Inghilterra in quegli anni, veicola un universo concettuale estraneo alla sensibilità politica e culturale inglese (per poi, nel corso degli anni, trovarvi un sorprendente radicamento) è data dall'opera di James Harrington, Oceana, che vede la luce nel 1656. Qui, il tema della libertà è fuso con l'evocazione suggestiva di una repubblica che ci pare per molti versi ricalcata sulla traccia della letteratura utopistica fiorita sul continente a partire dal secolo precedente.

    Sarà, con una maggiore attenzione al dato empirico, Algernon Sidney, nei Discourses concerning Government pubblicati dopo la sua morte, a intrecciare una narrazione intorno all'origine dei governi in polemica con Robert Filmer che, nel Patriarcha, aveva sostenuto il diritto divino dei re; qui sono inoltre rintracciabili temi notorii del canone repubblicano, come l'opposizione tra esercizio virtuoso della libertà positiva e la schiavitù propria di coloro, come le popolazioni degli Assiri e delle altre nazioni orientali, che non hanno conosciuto istituzioni stabili e ordinate. Sidney estende ai Romani il suo discorso, e l'intera sezione XII del libro – intitolata "The Glory, Vertue and Power of the Romans, began and ended with their Liberty" (p.112) – consiste in un'accurata perorazione a favore delle libertà antiche, dalle quali procedette ogni bene per le generazioni che seppero goderne; così, afferma Sidney, "I dare affirm that all that was ever desirable, or worthy of praise and imitation in Rome, did proceed from its Liberty, grow up and perish with it" (ibidem).

    [CONTINUA]

 

 
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