Claudio Rutilio Namaziano “De reditu suo”

Claudio Rutilio Namaziano (384-423) apparteneva ad una ricca famiglia proprietaria di latifondi in Gallia, quasi certamente nei pressi della città di Tolosa. Trascorsa l’infanzia in Patria, seguì il padre nominato Governatore della Tuscia e dell’Umbria. Di cultura classica, percorse una carriera nelle istituzioni romane, fino a diventare Prefetto di Roma nel 413. Dopo le scorrerie dei Goti invasori, è costretto ad affrontare un viaggio per constatare i danni alle proprietà galliche di famiglia e a porvi rimedio. Il resoconto di questo viaggio, che si svolse per mare, probabilmente da Ostia a Massilia (Marsiglia) è raccolto nel poemetto "De reditu suo", in cui la descrizione geografica della costa italiana fino a Luni (Carrara), ove si interrompe il documento letterario pervenutoci, è occasione di spunti poetici e riflessioni filosofiche sulla caducità delle sorti umane.
Nostalgico dei fasti dell’Impero e della paganità, Namaziano attribuisce la decadenza non tanto all’invasione barbarica, quanto all’invadenza di quei culti e valori ebraico-cristiani, reputati estranei alla Tradizione di Roma. I brani, tradotti da Miro Renzaglia sul n. 30 della rivista Letteratura Tradizione (redazione Piazza Garibaldi 4, 61100 Pesaro tel. 0721 67788, e-mail: heliopolisedizioni@libero.it ), alludono a tre parti del racconto: la partenza da Roma, l’approdo a Capraia con l’incontro di una delle prime comunità di monaci eremiti cristiani, lo sbarco a Falesia.

Claudio Rutilio Namaziano, Il ritorno, a cura di A. Fo, Edizioni Einaudi, 1992
Dal racconto è stato tratto il film di Claudio Bondì “De Reditu – Il Ritorno”, 2003






Roma. Partenza.

Mentre mi allontano, mi fa bene voltarmi
verso Roma, ancora vicina e seguire
i monti con lo sguardo… che viene meno.
Grati, e fin dove arrivano, gli occhi godono
ancora della regione che mi fu cara, tanto
da farmi vedere ciò che invece, immagino solo.
Non riesco a riconoscere da un filo di fumo
il punto che segna il centro del mondo, né le sua mura
(benché, come dice Omero, il lieve indizio del fumo
che sale agli astri basta a predire la terra che ami):
è solo il culmine luminoso del cielo, un tratto sereno,
che mi segnala le sette splendenti vette dei colli.
Là… là sono i soli eterni. E più terso e chiaro,
è ancora là, sorgivo, il giorno che Roma ha creato per sé.
Ancora di più, stordito, sento il chiasso circense
e le acclamazioni nei teatri pieni di gente.
L’aria pulsante mi restituisce le voci note:
volino qui, volino qui davvero.
Oppure le finga… l’amore.




Capraia. Invettiva contro i monaci cristiani.

All’orizzonte del mare, si vede già la Capraia:
isola squallida per uomini lucifugis.
Con nome greco si dicono “monaci”:
vogliono vivere da soli. Senza testimoni.
Temendo i colpi della sorte, rifiutano i doni della fortuna.
S’era mai visto prima d’ora uno che, per paura
D’essere infelice, si rende infelice da solo?
Quale pazza furia gli sconvolge il cervello?
Temendo il male rifiutano il bene.
E, per i propri misfatti,
si condannano da soli all’ergastolo.
Valli a capire…
Quanto fiele nero gonfia le loro viscere!
Volete sapere che diagnosi fece Omero per l’eccesso di bile?
Delle bellerofonti ipocondrie? Questa:
ferito dai colpi del dolore, il giovane
ha preso a disprezzare il genere umano.


Falesia. Invettiva contro gli ebrei

Sbarcati, Falesia ci accoglie stanchi dal viaggio.
Diretti alla villa, vaghiamo per un boschetto.
Lo stagno, racchiuso in uno specchio luminoso,
lascia giocare nella sua onda generosa
pesci vivaci nei vivai. Ma il nostro riposo
è interrotto da un giudeo indisponente
ministro del luogo (più inospitale di Antiphate…)
bestia umana che si dissocia per il cibo.
Urlando, ci accusa di aver spezzato cespugli,
sconvolto alghe e, massima colpa, avere – pensate un po’ –
sfiorato l’acqua.
Gli restituiamo gli insulti che si devono
a chi osa falciarsi il prepuzio.
Folle genia! coi frigidi sabati nel cuore
E il cuore ancora più frigido della loro religione,
condannano un giorno su sei a un ozio infame:
quasi fosse il ritratto molle del loro dio sfinito.
E le altre loro fandonie e i deliri da schiavi,
non le crederebbe neanche un bambino!
Ah! Non avessero mai sottomesso la Giudea
Le armi di Pompeo e l’autorità di Tito:
inciso il bubbone, la peste ha dilagato meglio.
E ora, è il popolo vinto che opprime il vincitore.