Col nome di Pasque Veronesi fu chiamata l'insurrezione generale della città di Verona e del suo contado, scoppiata il 17 aprile 1797, lunedì dell’Angelo. Tra le innumerevoli insorgenze che dal 1796 al 1814 costellarono l'Italia e l'Europa occupate da Bonaparte e che esprimevano il rigetto da parte delle popolazioni dei princìpi della rivoluzione francese, la sollevazione di Verona è certamente la più importante in Italia, dopo la Crociata della Santa Fede del 1799, con la quale il Cardinale Fabrizio Ruffo di Calabria e i contadini del Mezzogiorno riconquistarono un intero Regno ai Borboni di Napoli.
L’INVASIONE NAPOLEONICA
Nel marzo del 1796, Napoleone Buonaparte, un oscuro ufficiale còrso, giunge al comando dell'armata d'Italia, incaricato di aprire un fronte secondario, rispetto a quello del Reno, contro l'Austria Imperiale. Le insospettate doti del Bonaparte e la sua spregiudicata condotta militare spiegano i successi mietuti dall'armata fra il 1796 ed il 1797. Occupati il Piemonte e la Lombardia austriaca, Bonaparte invade anche i territori neutrali della Serenissima Repubblica di Venezia, che aveva rifiutato le ripetute offerte di alleanza militare sia dell'uno che dell'altro belligerante. Il 1° giugno 1796 entra in Verona con le micce accese ai cannoni, nell'ostilità generale. Vinti gli imperiali a Rivoli, nel marzo 1797 il piano di sovvertimento della Serenissima si realizza: Bonaparte spinge un pugno di cospiratori bergamaschi e bresciani ad un colpo di Stato, per staccare Bergamo e Brescia dalla Serenissima, le quali si proclamano repubbliche indipendenti, mentre sono in realtà soltanto dei fantocci protetti dalle baionette d'Oltralpe.
Crema è rivoluzionata a tradimento dagli stessi francesi. Tutta la Lombardia veneta è in fiamme. Salò è contesa da giacobini e abitanti delle vallate, incondizionatamente fedeli al leone di San Marco, i quali, guidati da un eroico sacerdote, Don Andrea Filippi, hanno alla fine la meglio e chiedono soccorso ai veronesi. I giacobini sono però decisi non solo a riprendere Salò, ma anche a marciare su Verona. La città dà subito prova della sua lealtà al legittimo governo, chiedendo al Senato Veneto di potersi armare e difendere dai giacobini bergamaschi e bresciani. Quarantamila veronesi in armi, fra cui numerosi sono i contadini delle cernide, guidati dal giovane generale Antonio Maffei, si schierano a presidiare il confine col bresciano, liberano diversi abitati e giungono addirittura ad assediare Brescia; la coccarda giallo-azzurra coi colori cittadini è il loro emblema. Il vescovo di Verona, Mons. Gianandrea Avogadro, modello di carità per tutti i combattenti controrivoluzionari, dà ordine di fondere le argenterie delle chiese per la salvezza della patria.
In città, tra l'imbarazzo e l'apprensione dei francesi barricati nei castelli, è tutto un pulire spade e lucidare moschetti, mentre compaiono ad ogni angolo di strada cartelli e scritte di Viva San Marco! Tutte le porte sono sorvegliate a vista dalla Guardia Nobile, una milizia volontaria appositamente costituita dalle autorità veronesi, a testimonianza di una sfiducia ormai diffusa verso le forze armate nazionali, vincolate dal Senato al rispetto della scellerata politica di neutralità disarmata. Così, pur di tenere fede a tale politica, la Repubblica, fedele alla propria neutralità, proibisce ai veronesi qualsiasi atto di ostilità contro i francesi, i quali, da Milano, da Mantova e da Ferrara-Padova si mettono intanto in marcia contro l'esercito veneto-scaligero del Maffei e contro la città.
LA RIVOLTA DI VERONA
Il 17 aprile 1797, lunedì dopo Pasqua, le continue provocazioni francesi fanno sorgere i primi incidenti. Quando, alle 17, durante i vespri, le batterie dei castelli sovrastanti la città e che sono in mano nemica, iniziano a cannoneggiarla, i veronesi esasperati insorgono come un sol uomo al grido di Viva San Marco!, mentre le campane a martello avvisano anche il contado che la sollevazione generale è iniziata.
Per nove giorni si combatte casa per casa; tutte le porte sono liberate; assaltate le piazzeforti; inviate richieste d'aiuto a Venezia, nel cui nome e nel cui interesse si battaglia e si muore e all'Impero, che però proprio in quei giorni aveva siglato con Bonaparte i preliminari di pace a Leoben. Il popolo, inesperto nel maneggio dei cannoni, è soccorso da sei artiglieri imperiali, liberati dalla prigionia di guerra. Si assedia Castelvecchio. Trasportati i pezzi da fuoco sui colli di San Mattia e di San Leonardo, il popolo cannoneggia dall'alto i rivoluzionari francesi asserragliati dentro Castel San Pietro e Castel San Felice: altri duecento soldati imperiali combattono confusi nella mischia.
A capitanare i veronesi sono il Conte Francesco degli Emilei ed il Conte Augusto Verità. A migliaia i contadini si precipitano a soccorrere Verona. Giungono per primi gli abitanti della Valpolicella, che si offre di condurre tutti i suoi uomini; scendono i montanari dalla Lessinia; altre colonne di volontari in armi arrivano dalla bassa e dall'est veronese.
Il popolo avanza palmo a palmo verso i forti, respinge ogni tentativo di sortita da parte del nemico e tratta da traditore chiunque voglia patteggiare con lui.
L'infido generale Beaupoil, che dai castelli sopra la città, la batteva con le artiglierie, disceso a parlamentare, ben presto perde tutta la sua tracotanza, piagnucola e si vede salvata la vita dal Marchese Giona, che lo sottrae al linciaggio della folla esasperata.
Castelvecchio alza bandiera bianca: viene ordinato il cessate il fuoco, ma i rivoluzionari francesi, scorgendo che gli assedianti, imprudentemente, si erano troppo avvicinati al castello, aperte le porte, ne approfittano per scaricare a tradimento contro di loro un cannone a mitraglia, facendone strage. Una pattuglia imperiale, che reca purtroppo la notizia dei preliminari di pace, è accolta in delirio dalla popolazione che la crede invece un'avanguardia degli Imperiali, prossimi a liberare la città dagli odiati giacobini. A Pescantina l'eroica resistenza degli abitanti blocca l'avanzata di una colonna francese, impedendole di traghettare l'Adige, eroismo che diciannove pescantinesi, fra cui donne e bambini, pagano con la vita, moschettati o arsi vivi nelle loro case.
A Venezia, intanto, Emilei non ottiene gli aiuti sperati e deve rientrare a mani vuote. Sul lago il generale Maffei, attaccato dagli eserciti francesi provenienti da Milano, deve arretrare, fedele alla consegna del Senato di non scontrarsi con essi, ma a San Massimo e a Santa Lucia il 20 aprile s'ingaggia battaglia aperta; lo scontro volge in un primo tempo a vantaggio dei soldati veneti ed è quella l'ultima volta che la vittoria arride a San Marco, ma poi, sopraffatti dal numero, essi sono costretti a ritirarsi tra le mura.
Alla fine di nove giorni di combattimenti i francesi contano a centinaia le vittime lasciate sul campo in quella che è diventata, per l'esercito più potente d'Europa, una cocente sconfitta militare. Poco più di un centinaio sono i caduti veronesi. Circa 2.400 sono i prigionieri francesi catturati, dei quali 500 sono militari, altri 900 appartengono al personale civile dell'esercito napoleonico assieme ai loro familiari: tutti erano stati condotti in Piazza dei Signori, presso il palazzo dei rappresentanti veneti a Verona. Altri 1.000, infine, degenti negli ospedali cittadini, sono ivi piantonati dagli stessi veronesi per preservarli da ogni vendetta.
IL SACCO DI VERONA
La sorte della città, privata di ogni soccorso esterno, è tuttavia segnata; ma il popolo non vuole ancora arrendersi. In provincia si susseguono le esecuzioni sommarie: in località Ca' dei Capri, presso San Massimo, cade fucilato sotto il piombo francese un giovanissimo sacerdote, Don Giuseppe Malenza, che guidava un gruppo d'insorgenti. Dalle alture i giacobini veronesi, traditori della loro patria, suonano fanfare militari per l'imminente crollo dell'aborrita Verona. Infine, assediata da cinque eserciti, bombardata giorno e notte, tradita dai Provveditori Veneti che l'abbandonano per ben due volte pur di non violare la chimerica neutralità, Verona capitola il 25 aprile 1797, giorno di San Marco, dichiarando al tempo stesso, con un gesto simbolico che sottolinea il disprezzo per l'ignavia ed il tradimento dei veneziani e che la eleva a rango di capitale, cessato il dominio veneto su di essa.
Disarmato il popolo, resi inservibili i cannoni, presi in ostaggio i sedici più eminenti concittadini, il 27 aprile i francesi rientrano in Verona. Per prima cosa saccheggiano il Monte di Pietà, la banca dei poveri. Vengono imposte contribuzioni enormi, depredate le opere d'arte, mentre una commissione militare è incaricata di far deportare alla Guyana i cinquanta colpevoli principali dell'insurrezione. I traditori veronesi, peggiori dei loro padroni, vorrebbero mutare nome a Verona (ribattezzandola Egalitopoli o Città dell'Eguaglianza) essendosi macchiata dell'onta di essersi ribellata a cotanti liberatori e vorrebbero punire con una pubblica decapitazione sul corso, tutti i capi famiglia protagonisti della gloriosa difesa della propria città e del proprio legittimo ed amato governo. Sono gli stessi francesi, per non aggravare la tensione, ad impedire la consumazione del massacro.
Ma la vendetta non si fa attendere: il 6 maggio 1797 sono arrestati nella notte e mandati a morire tra il 16 maggio, l'8 e il 18 giugno, dopo un processo politico farsa tenutosi a Palazzo Ridolfi Da Lisca, Giovanni Battista Malenza (fratello di Giuseppe) del controspionaggio veneto, al quale i giacobini l'avevano da tempo giurata e che era stato uno dei capi dell'insurrezione cittadina, i Conti Emilei e Verità le cui case sono abbandonate al saccheggio ed il vecchio frate cappuccino Luigi Maria da Verona (al secolo Domenico Frangini) morto in concetto di santità. Disgustato dall'empietà dei sanculotti, in una lettera ad un suo confratello, intercettata, li aveva definiti peggiori dei cannibali, perché questi ultimi avevano levate le mani solo contro gli uomini, mentre i repubblicani francesi le avevano levate contro Dio. Rifiutatosi di disconoscere la paternità della lettera, Padre Frangini affronta il martirio al suono scordato dei tamburi. Anche i popolani Pietro Sauro, Andrea Pomari, Stefano Lanzetta e Agostino Bianchi subiscono analoga sorte: fucilati tutti a destra di Porta Nuova, guardandola dall'esterno.
Clamoroso anche il difetto di giurisdizione del tribunale militare rivoluzionario: esso condanna a morte gli insorgenti veronesi, in forza di una legge criminale francese che punisce i reati commessi contro l'esercito repubblicano in territori di Stati in guerra con la Francia, la quale era ancora formalmente in pace con la neutrale Serenissima.
Non appena rioccupata la città, i rivoluzionari francesi decidono l'immediata deportazione in massa in Francia, via Cisalpina e quindi via Milano, dei 2.500 uomini della guarnigione veneta che aveva difeso la città ed in particolare del Reggimento di Fanteria Treviso. Per accoglierli, la patria dei liberatori dell'umanità istituisce il primo universo concentrazionario moderno.
Da quei campi di prigionia e di sterminio, tornarono meno della metà, dopo la pace di Campoformio, rimpatriati, sul finire di quel terribile 1797 e nei mesi successivi, attraverso la frontiera del Reno, passando per i territori amici dell'Impero. La maggior parte di quei militi, colpevoli soltanto di aver fatto il proprio dovere, morì di fame o di stenti in Francia; altri ancora sulle strade del Brennero o del Tarvisio, sulla via di casa.
LA FINE DELLA SERENISSIMA
Nei mesi successivi giacobini veronesi e rivoluzionari transalpini si sfogano ad elevare alberi della libertà e piramidi, a scoronare e depredare in Cattedrale la venerata immagine della Madonna del Popolo (alla quale viene negato il titolo troppo aristocratico di Regina, declassandola a cittadina Madonna) e ad altri sacrilegi, a lanciare spropositi dalla sala di pubblica istruzione, proponendo ad esempio di bruciare tutti i confessionali, di far mitragliare in Stradone San Fermo gli ecclesiastici o di distruggere le Arche Scaligere, perché innalzate sotto un regime anti-democratico. I leoni di San Marco vengono abbattuti, gli stemmi nobiliari e i rispettivi titoli proibiti, sotto pena di pesanti multe per chi soltanto osi pronunciarli. Addirittura, per giustificarsi di aver aggredito una città ed una Repubblica neutrale ed in pace con loro, rivoluzionari transalpini e giacobini veronesi rovesciano le loro responsabilità sulle vittime, inventando la favola del massacro di Verona e facendo passare l'insurrezione di una città stanca della tirannia dei suoi pretesi liberatori, come un eccidio di massa, programmato e freddamente realizzato, di soldati francesi malati o feriti. Mentre Verona geme sotto la sferza della Rivoluzione, le autorità veneziane consumano l'ultimo tradimento della Repubblica, rinunziando a difendersi, pur non avendo Bonaparte alcun naviglio per conquistare Venezia, alla quale aveva frattanto dichiarato guerra. Dopo mille anni di splendore e d'incontrastato dominio del leone alato di San Marco, durante i quali il glorioso gonfalone della Serenissima era sventolato su tutti i mari, temuto e rispettato perfino dal Turco, l'antica città dei Dogi è consegnata ad un nugolo di municipalisti intriganti e parolai, che piantano l'albero della libertà in San Marco, minacciano la pena di morte a chiunque osi gridare Viva San Marco! e che usurperanno il potere fino all'ingresso, trionfale, degl'imperiali in città, nel gennaio 1798.
da www.civitaschristiana.it
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[Data pubblicazione: 22/04/2006]