Domenico Savino
27/07/2006

La cosa più inquietante di questi giorni?
Una frase di Condoleezza Rice, il segretario di Stato americano, che Ariel Sharon, con compiaciuta prurigine, definiva le più belle gambe della diplomazia. (1)
Le gambe non so, la dentatura certamente no.
Ecco cosa ha detto «Condi», parlando della guerra tra Israele e Libano: «Il mondo sta ascoltando 'le doglie' del nuovo Medio Oriente che nasce, e non possiamo tornare indietro a quello vecchio».
Una frase - quella della Rice - che i giornali stanno ripetendo ossessivamente e che è dello stesso tenore di quella che cominciammo a sentire all'indomani della caduta del Muro di Berlino: «Nuovo Ordine Mondiale» allora, «Nuovo Medio Oriente» oggi.
In realtà di nuovo non c'era nulla allora e non c'è nulla oggi.
Il «Nuovo Ordine Mondiale» altro non era che il vecchio progetto mondialista e sinarchico, che gli incalliti, inemendabili e irrecuperabili (ma lungimiranti) «complottisti» denunciavano da anni e che si è puntualmente realizzato con i suoi corollari di omologazione, vizio, degrado, subordinazione, dissoluzione spacciati però per globalizzazione, libertà, creatività, nuove opportunità, riorganizzazione.
Quanto al «Nuovo Medio Oriente», esso è in realtà un vecchio sogno israeliano, che rischia di diventare incubo per i popoli arabi del medio-oriente, cioè la destrutturazione degli Stati dell'area e la loro frammentazione lungo linee etniche e tribali in perenne conflitto tra di loro, secondo il modello irakeno, o la instaurazione di regimi allineati con gli interessi israeliani e americani.
Con riguardo poi ai palestinesi, la prima opzione dell'ala più integralista e nazionalista degli ebrei sarebbe il trasferimento, cioè la deportazione, nei Paesi vicini, con preferenza verso la Giordania.



Ma questa sarà una politica che verrà attuata lentamente, con costanti soprusi quotidiani, che inducano i palestinesi ad abbandonare le loro terre, oltreché con periodici «pogrom» modello Gaza, che annientino i più «resistenti».
Nel frattempo la soluzione sarà quella dei Bantustan (ripresa dal regime razzista e segregazionista del Sud-africa, il quale nel 1959, nell'ambito della politica dell'apartheid, approvò una legge che istituiva unità territoriali chiamate homeland, patrie, o bantustan, Stati bantù, destinate ai vari gruppi etnici bantù).
I palestinesi saranno dunque murati vivi nel West Bank e frazionati territorialmente.
Il primo ministro israeliano, Olmert, ha vinto le elezioni parlando di una rilocalizzazione di 68 delle 74 colonie esistenti, che stando agli analisti determinerà un incremento del 20% delle capacità delle colonie e un imprigionamento sistematico dei palestinesi all'interno della loro terra.
Quanto a Gerusalemme, la pulizia etnica della città avverrà attraverso un isolamento sempre maggiore dei palestinesi rispetto alla loro capitale, alle loro istituzioni, ai centri storici e religiosi, isolamento sigillato dallo spaventoso «muro dell'apartheid» attorno ad essi.
Inoltre a fronte di una minima forma di autogoverno amministrativo palestinese nella valle del Giordano, verrà sancita l'impossibilità di un loro accesso al fiume e quindi alle risorse idriche e agricole del fiume.
Eccolo. Signori, il «Nuovo Medio-Oriente»…
E tuttavia non è questa espressione - «Nuovo Medio-Oriente» intendo - ciò che inquieta nella dichiarazione della Rice, ma il fatto che Condoleezza l'abbia accompagnata con una «formula» che è in realtà un messaggio in codice: «il mondo sta ascoltando le 'doglie' del 'Nuovo Medio Oriente' che nasce, e non possiamo tornare indietro a quello vecchio'».

L'espressione «doglie del nuovo Medio Oriente che nasce» non è casuale ed è densa di significati religiosi.
«Doglie del parto» è espressione usata tra il resto nel Capitolo 12 dell'Apocalisse, laddove è scritto: «Nel cielo apparve poi un segno grandioso: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle. Era incinta e gridava per le doglie e il travaglio del parto».
A quest'immagine ricorre anche san Paolo, quando insegna che la creazione, proprio a causa della «schiavitù del peccato», è stata sottomessa alla caducità e, per questo, geme e soffre nelle doglie del parto, attendendo con impazienza la rivelazione dei figli di Dio, poiché soltanto su una tale strada può essere veramente liberata dalla schiavitù della corruzione, per partecipare alla libertà e alla gloria dei figli di Dio. (confronta Romani 8,19-22).
L'Apocalisse, che nella lettura cattolica, descrive ad un tempo la venuta ed il ritorno del Cristo sulla terra e la terribile ma inutile lotta di Satana contro di Lui e la Chiesa, si ricollega all'insegnamento di Paolo che proietta la pienezza della Redenzione nella dimensione escatologica finale.
Le doglie del parto sono quelle per la nascita del Cristo, vincitore del peccato e della morte. Tuttavia - come insegna il catechismo della Chiesa Cattolica - solo «alla fine dei tempi, il regno di Dio giungerà alla sua pienezza. Dopo il giudizio universale i giusti regneranno per sempre con Cristo, glorificati in corpo e anima, e lo stesso universo sarà rinnovato». (2)
La Rice, invece, è parte di quel gruppo al potere, di matrice ebraica o protestante, che viene definito neo-con (e che sta per neoconservatori): un gruppo ristretto di intellettuali, politici, esperti di politica, docenti e giornalisti, che esiste da anni, ma che sta facendo parlare di sé più del solito, per via della «rivoluzione» che ha prodotto a partire dall'avvento al potere di G. W. Bush.
Questa rivoluzione, che ha basi profonde in una parte della storia americana, nasce anche da fattori moderni ed è frutto della convergenza tra tre fattori diversi:
1) potenti interessi economici;
2) un' ideologia imperialista e una tecnologia senza uguali nel mondo;
3) la religiosità messianica di massa del popolo americano.
Proprio quest'ultimo aspetto è stato alla base della grande capacità di Bush di intercettare
«la pancia» dell'America e di vincere - questa volta senza discussioni - le elezioni per il secondo mandato.






Le sette evangeliche e protestanti, apocalittiche e millenariste sono state determinanti nell'organizzazione e nella raccolta del consenso a favore di Bush, indirizzandone pure le scelte sui temi della «politica dei valori» e di politica estera.
Tra questi un ruolo decisivo lo hanno giocato i cosiddetti cristiano-sionisti o dispensazionalisti, secondo i quali lo Stato di Israele non ha soltanto il sostegno di Dio, ma è realmente la Sua opera maestra nel dispiegamento della Sua volontà in questi «ultimi giorni».
I cristiano-sionisti ritengono che l'instaurazione di Israele sia predetta dalla Bibbia.
Secondo costoro «il Nuovo Testamento è un patto fatto con la nazione ebraica» (3) e il futuro del genere umano è appeso a questo Israele (lo Stato di Israele, cioè), che è pure la «luce del mondo».
Ha scritto Barbara Spinelli: «Nella visione apocalittica delle sette evangelicali, lo Stato d'Israele deve esistere e grandemente espandersi affinché siano create le condizioni del Secondo Avvento di Gesù: un avvento che comporterà tuttavia la fine dello Stato d'Israele, la conversione in massa degli ebrei, e il loro sciogliersi definitivo nel cristianesimo che trionferà all'indomani dell'Armageddon, la finale lotta tra bene e male». (4)
Ciò che si produce è di conseguenza un'israelizzazione dell'America, in vista di una cristianizzazione di Israele, secondo una direttrice strumentale ed equivoca per entrambi: è sicuro infatti che non vi è alcuna intenzione di Israele di convertirsi al «Messia figlio di Giuseppe», giacchè esso attende il «Messia figlio di Davide».
La folle prospettiva delle sette evangelicali americane di convertire Israele, affrettando il ritorno di Cristo, anzi quasi evocandolo magicamente, mediante la realizzazione forzosa della Scrittura, oltrechè essere una forma satanica di prevaricazione, trasforma la prospettiva escatologica del Regno in evento storico e politico, assorbendo all'interno della fede cristiana categorie tipicamente giudaiche.



Esiste infatti una differenza fondamentale tra il messianesimo ebraico e quello cristiano, che li pone su due diversi piani prospettici.
Gershom Scholem ha così definito la ragione di questa differenza: «L'ebraismo, in tutte le sue forme e manifestazioni, ha sempre mantenuto un concetto di redenzione come un evento che prende posto pubblicamente, sulla scena della storia e dell'interno della comunità […]. Il cristianesimo concepisce la redenzione come un evento nel regno dello spirituale e dell'invisibile, un evento che è riflesso nell'anima, nel mondo privato di ciascun individuo». (5)
Come afferma Paolo Consigli, nel Talmud è scritto che «questo mondo differisce da quello dei giorni del Messia solo per la schiavitù a potenze (straniere)» (Sahnedrin 98b).
L'evento messianico a livello politico coincide con il ritorno del popolo ebraico alla sua terra e con la pace tra tutte le nazioni; secondo la profezia di Isaia, «giustizia» e «pace» contraddistinguono i tempi del Messia ed è in questa visione che la parola pace in ebraico, «shalom», significa anche «completezza».
Rabbi Yochanan ha insegnato però che «il Messia verrà soltanto in una generazione che sia o completamente giusta o completamente malvagia»: perché il Messia possa comparire, l'umanità deve raggiungere la perfezione, oppure sprofondare nella pura malvagità, nel vuoto, nell'emergenza, nella violenza.
Quest'ultima è l'immagine ebraica delle «doglie del Messia»: il costo della pace messianica è l'emergenza, il momento di massimo pericolo, le tenebre da cui non si vede alcuna via d'uscita. (6)
La figura del Messia da una buona parte dell'ebraismo non è più concepita come attesa di una persona fisica, secondo la concezione «ortodossa» o come uno spirito di fratellanza universale, caro alla tradizione riformata e laica.
Il Messia sarebbe invece - secondo una terza posizione - lo stesso popolo ebreo, redentore di se stesso e dell'umanità: l'inveramento del Messia nella storia sarebbe rappresentato, dunque, dal ritorno degli ebrei in Eretz Israel, come predetto dalle antiche profezie e la loro costituzione in una nazione sovrana.



Se così è, le doglie del Messia, come testimoniano le continue guerre di Israele che ne starebbero accompagnando la nascita fino alla riconquista degli antichi confini biblici, indirizzano la direzione della storia verso abissi di devastazione e rischiano di fare sprofondare l'umanità nelle tenebre senza luce.
Pazienza se ad usare questa simbologia è qualche rabbino o qualche anziano kabalista.
Più inquietante si fa la cosa, se a parlare di «doglie del nuovo Medio Oriente che nasce» è il segretario di Stato degli Stati Uniti d'America, la maggiore potenza militare ed atomica del pianeta.
Considerando con quanta disinvoltura a Washington come a Tel Aviv si agitano incoscientemente la sciabola (magari nucleare) ed il turibolo, vorremmo non dover condividere le preoccupazioni di un ebreo ragionevole come Meron Benvenisti, secondo cui il nazionalismo messianico e il messianismo militarista ci costringono a considerare il peggio come una scelta reale e l'Apocalisse come un progetto politico. (7)



Domenico Savino




--------------------------------------------------------------------------------
Note
1) Ariel Sharon prima di entrare in coma ne andava pazzo: «Se le guardo perdo il filo del discorso», confessò pubblicamente.
2) Catechismo della Chiesa Cattolica, numero 1042.
3) Kenneth Wuest, «Gli Ebrei nel Nuovo Testamento», Greco, 1947, pagina 14.
4) Barbara Spinelli, «Le trappole dei sionisti cristiani», La Stampa, 6 aprile 2003.
5) G. Scholem, «The Messianic Idea in Judaism», Schocken, New York 1978, pagina 1.
6) Paolo Consigli, «Ricomporre l'infranto. Walter Benjamin e il messianesimo ebraico», Relazione per il Centro studi Walter Benjamin, http://web.tiscali.it/walterbenjamin
7) Michel Warschawski, «A precipizio. La crisi della società israeliana», Bollati Boringhieri, Torino, 2004, pagina 51.




Copyright © - EFFEDIEFFE - all rights reserved.