....e post aborto
Di sindrome post aborto Rhonda Arias non aveva mai sentito parlare.
Sapeva soltanto che la sua era una vita segnata dalla depressione, dall’abuso di alcol e di cocaina e da un tentativo di suicidio, dal quale si salvò quindici anni fa. Fu allora, racconta sull’ultimo New York Times Magazine, che arrivò l’illuminazione.
Che capì il nome e l’origine di quel male cupo e feroce che le pesava sul cuore e sui pensieri. E fu allora che decise quale sarebbe stata la strada che le avrebbe fatto fare la pace con se stessa e con i suoi molti bambini non nati.
Diventata predicatore evangelico, decise di aiutare le donne che, come lei, non avevano mai smesso di portare un lutto inesprimibile, negato al mondo e dal mondo, nascosto anche a se stesse.
La sua storia, e la descrizione della sua vita di “consulente per il recupero post aborto”, è il filo conduttore del lungo articolo del NYT, che fin dal titolo si chiede se esista poi davvero, questa sindrome post aborto. E’ un’invenzione degli antiabortisti, secondo la posizione senza appello del mondo prochoice, oppure è qualcosa che merita di essere finalmente riconosciuto?
La questione non è soltanto accademica. Non lo è soprattutto negli Stati Uniti, dove le più recenti polemiche sulla revisione della legislazione abortista nata dalla famosa sentenza Roe vs Wade considerano, oppure negano, l’emergere del trauma post aborto come malattia grave e devastante.
Ci si interroga, per esempio, sull’opportunità di segnalarla o meno come rischio alle donne che chiedono l’interruzione volontaria di gravidanza, con i conseguenti malumori di coloro che temono l’introduzione di limitazioni legali a quella che l’ordinamento americano garantisce come libertà praticamente senza limiti.
La sindrome post aborto, se è una malattia, per ora non dispone comunque né di portavoci celebri né è oggetto di film o di programmi televisivi, dice Theresa Burke, fondatrice di Rachel’s Vineyard Ministries, luogo di ritiro dove si organizzano incontri con donne sofferenti per trauma da aborto.
Con David C. Reardon, la Burke ha scritto “Forbidden grief. The unspoken pain of abortion”, dove racconta molte delle storie di dolore emerse durante quegli incontri.
All’agenzia Zenit, che l’aveva intervistata qualche settimana fa, la Burke aveva detto che “quando una madre viene bruscamente e violentemente staccata dal figlio si verifica necessariamente un trauma”, perché “l’aborto è un’esperienza di morte.
E’ il tramonto del potenziale umano, della responsabilità, del senso materno, della relazione con l’altro e dell’innocenza. Una perdita di questo tipo raramente viene vissuta senza conflitto e contrasto interiore”.
Non è così, scrive tuttavia il New York Times, per la maggioranza dei ricercatori e degli epidemiologi. Ed enumera i molti studi che contestano l’idea che l’aborto possa aumentare il rischio di depressione, di abuso di psicofarmaci e di alcol, oppure che incentivi la possibilità di cadere in altri e non meno gravi disturbi psicologici.
Non più, dicono, anzi meno di quanto tutto questo non possa avvenire in seguito a una gravidanza indesiderata.
Nel 1989, un gruppo di esperti convocato dalla American psychological association ha concluso unanimemente che l’aborto, entro i limiti della legalità, “per la maggior parte delle donne che vi ricorre, non crea rischi di natura psicologica”.
Ma ora di sindrome post aborto come problema sul tappeto parla anche il liberal (e naturalmente pro-choice) New York Times, e annuncia che per il 2008 è attesa una nuova valutazione di tutta la letteratura scientifica sul tema.
Da il Foglio