OMNIA SUNT COMMUNIA
Laura Eduati
«Un luogo dimenticato da dio e dagli uomini».
Così il sindaco Alemanno ha definito la zona di Ponte Galeria dove sono stati brutalmente aggrediti due coniugi olandesi in pellegrinaggio. Dopo l'omicidio Reggiani alla stazione fatiscente di Tor di Quinto torna a terrorizzare la periferia degradata, dipinta come fucina di episodi criminosi da reprimere con la presenza delle forze di polizia. «Gli agenti da soli non bastano altrimenti si crea il gioco dei buoni e dei cattivi» commenta Mauro Magatti, preside della facoltà di Sociologia della Cattolica di Milano e curatore per la Caritas del volume La città abbandonata sullo sfilacciamento e la spersonalizzazione di alcune periferie italiane, lontane e vicine al centro storico, frammentate da mutamenti storici e sociali di lungo periodo come l'immigrazione, il mutamento del mercato del lavoro, il venir meno della protezione prima garantita dallo stato sociale. Ecco che, allora, le zone emarginate diventato «un carcere» dal quale i residenti vorrebbero scappare, rimandando all'esterno un'immagine «spesso peggiore di quella reale». «La deriva personalistica dei sindaci non serve», aggiunge Magatti, «manca una seria riflessione sulla città e sulla creazione della convivenza sociale».
Ponte Galeria, periferia abbandonata. Professor Magatti, che cosa lacera le nostre periferie?
Conviene puntualizzare che il problema delle periferie e dei quartieri degradati, anche centrali, non è un fenomeno superficiale né contingente, e nemmeno legato alle mancanze di questo o quel sindaco. Stiamo vivendo una trasformazione storica composta da processi diversificati come la riduzione della protezione da parte dello stato sociale, l'indebolimento della scuola, la precarizzazione del mercato del lavoro, l'immigrazione. Processi di lungo periodo che incidono particolarmente sui quartieri degradati, producendo situazioni acute e problematiche. Ma ciò non significa che tutte le periferie siano povere e marginali.
Le polemiche sull'omicidio di Giovanna Reggiani a Tor di Quinto e quelle sulla brutalità nei confronti dei due turisti olandesi convergono sul fatto che criminalità fa rima con periferia e che l'unica ricetta sono le forze dell'ordine.
Bisogna stare cauti sulla correlazione tra violenza e quartiere degradato. E peraltro le statistiche dimostrano un andamento dei crimini diverso da quello percepito e amplificato dai media. Se per criminalità si intende un singolo atto violento, e non forme organizzate di malavita, allora diciamo che nelle zone emarginate possiamo aspettarci maggiore criminalità in quanto si sommano varie forme di disagio: l'anziano solo, il giovane dropped out che ha abbandonato la scuola, lo straniero disoccupato e così via. Ma la violenza è soltanto un effetto di ciò che sta a monte e il problema della sicurezza viene acuito in quanto nelle periferie disagiate gli altri diventano più altri, diffidenza e senso di abbandono vengono accentuati.
Che senso ha dunque aumentare la presenza delle forze dell'ordine?
Le forze dell'ordine sono una parte necessaria ma non sufficiente. Questi quartieri hanno bisogno di maggiore presenza delle istituzioni pubbliche per creare una socialità propositiva, la sola presenza degli agenti trasforma la periferia in un gioco tra guardie e ladri, tra buoni e cattivi.
Nel volume "La città abbandonata" viene scritto che ormai alcune zone delle città italiane sono diventate illeggibili e non più omogenee. Che cosa significa?
Queste zone vengono abbandonate da chi non è obbligato a rimanerci: i professori chiedono il trasferimento, i parroci se ne vanno, le sedi delle istituzioni vengono poste in quartieri giudicati più sicuri, i cittadini delle altre zone evitano quei luoghi come la peste. Così diventa impossibile sapere che cosa succede davvero all'interno del quartiere, aggravando la situazione di queste cosiddette "periferie". Se succedono degli episodi di violenza, questi vengono amplificati a dismisura creando una cattiva fama della zona e dando la sensazione ai residenti di vivere in una sorta di carcere, senza la possibilità di comunicare con l'esterno. Un circolo vizioso che coinvolge specialmente i giovani che si sentono rifiutati dal resto del tessuto urbano perché magari non riescono a trovare un lavoro e così ripiegano sulla vita dura del quartiere, contribuendo a dargli un' immagine ben peggiore di quella reale.
Possiamo dire che una parte enorme di responsabilità ricade sulla pianificazione urbanistica?
Quello dell'urbanistica è un capitolo davvero complicato. Durante le nostre ricerche ci siamo imbattuti nei palazzi figli dei pensieri urbanistici di venti, trent'anni fa, concepiti per dare una sorta di ordine e strutturazione, ma il tessuto sociale è cambiato radicalmente e l'esito è disastroso. Pensare la città in tempo reale e riuscire a seguirla è una faccenda molto complessa, e peccano di presunzione gli architetti, gli urbanisti e i politici che pensano di trovare soluzioni definitive a problemi complicatissimi come la progettazione di un quartiere, spesso aggravando il problema esistente.
Che cosa significa pensare la città?
Significa facilitare la convivenza di noi tutti, perché ognuno vive in un quartiere e ha bisogno di una socialità. Significa ad esempio reinventare il mercato immobiliare, slegandolo dal solo reddito e facendolo motore di convivenza altrimenti diventa portatore di disastri. La riflessione sulla città, in Italia, è molto carente e il rischio è quello della personalizzazione del ruolo del sindaco, una deriva che non fa certo bene alla città. I primi cittadini dovrebbero invece promuovere un dibattito serio sulla convivenza urbana, per creare delle vere condizioni di vita serena e positiva
ARDITI NON GENDARMI