SETTANT’ANNI FA GLI EBREI ESPULSI DALLE SCUOLE E DALLE UNIVERSITÀ
MEMORIA MOLTO CORTA
SULLE INFAMI LEGGI RAZZIALI
Molti tentano oggi di sminuire la portata vergognosa delle leggi razziali, come fossero state un piccolo incidente di percorso. E, intanto, cresce una nuova forma di razzismo verso i "diversi", alimentato da paure e insicurezze.
Accadde settant’anni fa. Non sono tanti nella storia di un popolo, ma la memoria è corta. Settant’anni fa, il 5 settembre 1938, uscì il Regio decreto che espulse gli ebrei, alunni e insegnanti, dalle scuole e dalle università. Fu la prima delle leggi razziali che si susseguirono dal ’38 fino al ’43. Oggi si parla di quella vergogna come di un incidente di percorso, quasi una distrazione. Rispunta una forma di razzismo, alimentato da paure e insicurezze, contro i "diversi" del nostro tempo, gli zingari, gli immigrati, gli italiani di colore.
Si rivede la storia e, tanto per fare qualche esempio, si può addirittura dire che «il fascismo non è il male assoluto» (il sindaco di Roma Alemanno), e che «pure i soldati di Salò erano nel giusto» (il ministro della Difesa La Russa).
La memoria è corta e ogni tanto va rinfrescata. Esce ora un libro sugli anni della furia antisemita vissuti da una famiglia di Padova che si salvò rifugiandosi ad Assisi: Mirjam Viterbi Ben Horin, Con gli occhi di allora - Una bambina ebrea e le leggi razziali (Editrice Morcelliana, Via Gabriele Rosa, 71 - 25121 Brescia). L’autrice aveva 5 anni all’epoca della prima legge del ’38 e 10 quando la persecuzione finì. Quel periodo le è rimasto dentro per decenni, come sigillato. Infine s’è decisa a scriverne: «Dovevo superare, e non senza fatica, il pudore dei miei sentimenti di allora. Ma l’imperativo di una testimonianza diretta e cruda era più forte». Dopo la liberazione, Mirjam ha ricostruito la sua vita. Diplomata in pianoforte, laureata in Medicina e specializzata in Psichiatria, nel ’75 si è stabilita in Israele, dove esercita la professione di psichiatra. Ha sposato il diplomatico Nathan Ben Horin e ora vivono a Gerusalemme, con frequenti soggiorni in Italia. È molto attiva nel dialogo ebraicocristiano, sul quale scrive e tiene conferenze.
Ferma nella sua religione, si è interessata alla nostra fin dagli anni di Assisi, dove incontrò san Francesco: «Cominciavo a percepire che tra me, bambina ebrea nascosta, e il santo Patrono d’Italia c’era… qualcosa in comune. C’era una benedizione». La lunga notte vista dagli occhi dell’infanzia comincia quando il padre, professore di chimica fotografica all’Università di Padova, viene espulso dalla cattedra e la sorella maggiore Graziella dal ginnasio. Mirjam è troppo piccola per la scuola, eppure anche lei patisce la sua prima esclusione: non le è permesso diventare "figlia della lupa" come le altre bambine che sfilavano in divisa nelle parate.
È solo l’inizio. La famiglia Viterbi si rifugerà infine ad Assisi, dove troverà il soccorso del vescovo Giuseppe Placido Nicolini, di don Aldo Brunacci e di altri che nascondevano gli ebrei, compresi i tipografi Brizi che stampavano i documenti falsi. I loro nomi sono ora allo Yad Vashem di Gerusalemme, nell’elenco dei "giusti" che salvarono i perseguitati nella notte della ragione.
«Un lato poco noto degli eventi di quegli anni», scrive Mirjam Viterbi Ben Horin, «è che a volte la salvezza venne agli ebrei da uomini e donne che, contro l’ideologia imperante, seppero ascoltare l’umano che era in loro».
L’umano che è in noi. Ecco un sentimento da recuperare anche oggi che la paura del "diverso", le aggressioni contro lo "sporco negro", le scritte minacciose sui muri e altri segnali dell’ideologia imperante, fanno temere la ricomparsa di un razzismo che credevamo ormai sepolto tra i ferrivecchi del passato.
Franca Zambonini
http://www.sanpaolo.org/fc/0840fc/0840f174.htm